Il 22 dicembre 2006 usciva nei cinema I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice inglese P. D. James. La pellicola passò un po’ in sordina, anche a causa di una cattiva campagna distributiva. A portare le persone in sala non bastarono i nomi importanti nel cast (Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine), né la bravura di un regista che, se non ancora il nome noto di Gravity e Roma, non era nemmeno l’ultimo arrivato. Nel 2001 Cuarón aveva fatto incetta di premi a Venezia con il film d’autore Y tu mamá también – Anche tua madre e tre anni dopo conquistato il grande pubblico girando un blockbuster del calibro di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban.
Nel 2027 per una causa misteriosa le donne sono diventate tutte sterili, i bambini ormai sono solo un ricordo. Il protagonista Theo si muove in mondo incrudelito e senza futuro, nel quale gli immigrati sono trattati alla stregua di animali e il governo regala pratici kit per il suicidio. La sua vita cambia improvvisamente quando accoglie la missione di portare in salvo, tanto dal Governo quanto da un gruppo terrorista, la giovane profuga Kee, miracolosamente incinta.
A quindici anni di distanza, I figli degli uomini è conosciuto e apprezzato tanto quanto merita. Certo una parte del successo del film è attribuibile alla critica innamoratasene fin da principio. Così come era impossibile che le qualità intrinseche nell’opera passassero a lungo inosservate. Cuarón, che è anche sceneggiatore, intrattiene e commuove, con le parole e con la macchina da presa. La pellicola, come altre dello stesso regista, nel catturare il pubblico allo stomaco oltre che alla testa e ci riesce, cosa affatto scontata, senza mai eccedere. La violenza c’è ma non è mai compiaciuta. Le lunghe inquadrature costringono l’occhio fin nel fondo dell’anima dei personaggi: non si può sfuggire alla gamma di sentimenti messi in scena e alla fine ci si stupisce di quanto sembri tutto così ben equilibrato, così reale.
Ma c’è di più. Ai giorni nostri la maggior parte dei film (e delle serie televisive) che al momento della loro uscita sono ovunque diventano un ricordo sbiadito nel corso di poco. Non molti superano la prova del tempo e ancora meno diventano classici. I figli degli uomini, praticamente sconosciuto al momento della sua uscita, è ormai un classico contemporaneo nel suo genere, diventando di anno in anno più rilevante e questa non è necessariamente una buona notizia. D’altronde c’è poco da festeggiare quando un film distopico invecchia fin troppo bene.
Chi guarda il lungometraggio nel 2021, più di chi lo guardava nel 2006, riconosce in quel mondo alla canna del gas ricreato con tanta maestria del regista messicano i tratti della propria realtà. Tratti portati certo alle loro estreme conseguenze, ma non così distanti dalla traiettoria tragica sulla quale gli eventi del presente potrebbero instradarsi. Nel corso dell’ultimo quindicennio i migranti nelle gabbie hanno smesso di essere una speculazione fantascientifica; corre un brivido lungo la schiena ad ammetterlo. E se l’idea di camminare nel centro di Londra ed essere improvvisamente travolti da un’esplosione, o una sparatoria, o un accoltellamento di matrice terroristica, doveva sembrare fino a un decennio fa se non impensabile quantomeno inusuale, oggi non è più così: troppo viva nelle menti degli spettatori la scia di sangue, e il conseguente bombardamento mediatico, che ha colpito pochissimi anni fa le principali città europee.
L’immagine finale di Kee che stringe la sua neonata in un mare di nebbia mentre intorno tutto va alla rovina è potente ed emblematica. Finzione e realtà giungono a un punto di incontro nella speranza di un domani che non sia distopia. Anche se il problema della denatalità in Occidente si fa sempre più pressante, i nostri parco giochi non si sono ancora svuotati. Il futuro c’è, sempre più spesso affidato a una piccola barca alla deriva.