Fresco vincitore del premio alla miglior regia nella sezione Un Certain Regard della 77ª edizione del Festival di Cannes, I dannati (trailer) di Roberto Minervini è un curiosissimo affresco di storia americana che volontariamente si allontana dagli stilemi del cinema statunitense. Il genere western di riferimento è infatti spogliato di ogni tipo spettacolarità e di ogni forma di racconto classico, prediligendo così i sentieri di silenzio e minimalismo religiosi. Nel 1862, un gruppo di volontari dell’esercito nordista si spinge ad Ovest per perlustrare le insidiose terre del Montana: questa è la pura e lineare vicenda esterna.
Al contrario, però, quella interna esplode mano a mano che la narrazione prosegue. I soldati senza nome mettono in discussione la propria posizione nel mondo, trovandosi molto spesso in contrasto con la propria missione d’origine. L’errare dei dannati diventa allora sfiancante. La tensione cresce fino a quando non raggiunge l’apice in un’unica grande scena di combattimento, per poi cadere in modo vertiginoso. La condizione esistenziale dei personaggi è nell’interminabile attesa e, tramite quest’ultima, il regista/sceneggiatore racconta qualcosa di profondo e attuale.
Con I dannati, il cinema documentario di Minervini – quello dei suoi Stop the Pounding Heart (2013), Louisiana (2015) e Che fare quando il mondo è in fiamme? (2018) – trova una nuova e strana attualizzazione. Strana, perché la fruizione del film del 2024 non è poi tanto diversa da quella dei suoi precedenti lavori. Tutte queste produzioni sono infatti saggi antropologici su comunità rurali, o emarginate, o oppresse degli Stati Uniti, ognuna delle quali vive secondo i propri usi, costumi e dipendenze. Bisogna evidenziare, tuttavia, che I dannati è un film dichiaratamente di finzione ambientato durante la Guerra di Secessione americana. Nonostante questo però, esso è un’opera che stabilisce una continuità sovra-temporale con le trascorse fatiche del regista.
Seguiamo infatti i ricognitori (Jeremiah Knupp, René W. Solomon, Noah Carlson e Judah Carlson) nella preparazione di pasti, nella pulizia delle armi e nella perlustrazione dei luoghi boschivi e innevati. Proprio come la Sara protagonista di Stop the Pounding Heart che si prende cura della sua fattoria nel Texas contemporaneo, anche i soldati nordisti del vecchio USA si limitano ad “esistere” nel e per il mondo. Spolverare la colt, ad esempio, non ha alcun seguito all’interno della narrazione. Eppure è un’attività di contesto che restituisce un “esserci per”, uno stare nel mondo.
In tutto questo, la fotografia di Carlos Alfonso Corral sottolinea la costante alienazione degli uomini, tanto vera ieri quanto lo è oggi. Numerosissime tra l’altro sono le riprese in cui i soggetti sono messi a fuoco, mentre l’ambiente circostante rimane sfocato. Questa scelta serva a portare alla luce il conflitto interiore dei personaggi. Più avanti nel racconto infatti, superata la fase di condivisione degli usi e costumi dei soldati, veniamo sempre più a conoscenza dei loro pensieri e paure. È così allora che il film conquista un tanto auspicato punto di svolta, capace di mettere ben in scena le contraddizioni dell’esercito.
Proprio come i “cittadini” dimenticati del precedente cinema documentario di Minervini, anche i suoi dannati infatti non conoscono bene per cosa combattono. Per abolire la schiavitù? Questa è sì un male da estirpare, ma ci sono ragioni più viscerali a guidare i personaggi. La religione? Il mistero di Dio guida sì uno dei giovanissimi ricognitori, ma il Signore non dà mai prova di curarsi né di lui né della sua famiglia. Rimane un’assordante solitudine, fagocitata in particolar modo da glaciali location simili a gironi danteschi.
Emerge dunque il sostrato politico e antimilitarista dell’opera di Minervini. Gli uomini al fronte di qualsiasi guerra sono carne da macello di famelici predatori, ben visibili ad inizio film e più avanti nascosti alla vista. Nel primo caso i lupi sbudellano la carcassa di un capretto, mentre nel secondo attaccano in branco vomitando proiettili dalle bocche dei loro fucili. La regia in quest’ultimo caso è anti-spettacolare. Non ci sono i controcampi del nemico, ma solo i movimenti di macchina che partono dalla schiena dei ricognitori nordisti e che li inseguono da un angolo all’altro del campo attaccato. La telecamera rimane sui personaggi, soffocando così ogni speranza.
Non ci è dato sapere di preciso chi siano i nemici del film: se i suddisti, o gli indiani che una volta cavalcavano le terre libere dall’uomo bianco, o magari anche i governi che illudono le truppe di combattere per una giusta causa. La violenza rimane sempre tale, ieri e oggi. E a pagarne le conseguenze sono coloro che vivono ai confini dell’istituzione, come il ricognitore-capo che ha accettato di guidare la spedizione perché aveva bisogno di soldi per sopravvivere. In definitiva, I dannati di Minervini stabilisce una continuità con le produzioni recenti del suo regista e diventa la voce politica di una condizione esistenziale comune a tutti i dimenticati.
Al cinema.