Raccontare sé stessa e la storia della propria vita, soprattutto se essa si rivela devastante, non è mai un’impresa semplice. In questo si cimenta coraggiosamente la regista svedese Mia Engberg che, con Hypermoon (trailer), approdo finale della Belleville Trilogy, narra le vicende che l’hanno interessata, dall’avventurosa giovinezza, alla logorante lotta contro il tumore.
Il ritmo della narrazione è dettato dai ricordi che, sotto forma di filmati sgranati, invecchiati dal formato super 8, danno l’impressione di poter scomparire. In questo contesto, è l’indefinito ad imperare, restituito magistralmente dalla tangibile prevalenza delle immagini rispetto alla parola, la quale si limita ad accompagnarle in voice off. Le riprese, spesso d’archivio e sopratutto filmate dalla regista stessa anni prima, ci trasportano in una realtà lontana, spensierata e forse irripetibile, in cui coesistono narrazioni parallele. Queste si presentano come i vari tasselli che compongono l’esistenza di Mia e che, infine, fanno da cornice a quella che potremmo definire la più ardua delle sue avventure: la lotta contro il cancro. Le immagini dell’ospedale, infatti, spezzano il resto della narrazione, restituendo alla visione un tono grave e il senso di rischio incombente.
La caducità della vita, rappresentata come ineluttabilmente effimera, diventa quindi protagonista fondamentale, rappresentazione di quell’impercettibile filo a cui noi tutti siamo appesi. E se questo sentimento di morte imminente generalmente spaventa, in alcuni casi ci fa sentire ancora più vivi. Ed è questo che ci suggeriscono le scelte che hanno contraddistinto la regista nel corso della sua vita. Grande spazio, infatti, viene lasciato alla narrazione dell’avvincente e pericoloso rapporto d’amore tra Mia e Vincent, un ragazzo francese più grande di lei con una forte propensione al crimine. Una relazione certamente inusuale che, come quella tra Michel e Patricia in Fino all’ultimo respiro, denota il piglio spericolato della regista. Come nel film di Godard, anche in questo caso il legame non riesce a perdurare, causa l’arresto di Vincent. L’allontanamento dei due, che pure si continueranno a sentire assiduamente anche da adulti, costringe Mia ad affrontare, stavolta in solitaria, un’altra importante sfida: quella della maternità.
Ma è proprio nel momento in cui tutto sembra andare per il meglio che avviene la scoperta della terribile malattia; l’ennesima delle peripezie della donna, ma l’unica che non ha potuto eludere. La solitudine della stanza d’ospedale e l’incertezza del proprio futuro vengono esemplificate dai filmati di Valentina Tereškova, la prima donna ad andare nello spazio. Il suo destino si lega indissolubilmente a quello della regista, in quanto simboli di un fragile vagare all’interno di quell’incommensurabile spazio che è la vita. Lo sguardo dell’astronauta russa, pregno di dubbi e incertezze, si sovrappone a quello di Mia palesando un’incredibile assonanza. Queste due donne, apparentemente in modi diversi, sono costrette, quasi senza rendersene conto, ad affrontare un itinerario inesplorato, a cui nessuno è riuscito ancora a dare risposte esaurienti. Ma è proprio nelle imprese più onerose che si raggiungono i migliori risultati. Il riconoscimento mondiale nei confronti di Valentina ne è la prova.
Questo documentario, dunque, per citare le parole della regista, ci insegna che: «Non possiamo andare indietro, non possiamo cambiare il tempo» però, aggiungo io, possiamo documentarlo. L’abitudine di Mia Engberg di filmare tutto, infatti, sembra voler dire proprio questo. Il racconto della sua realtà diventa un inno all’attaccamento alla vita e il suggerimento a lottare per non perderla. È forse proprio questa la forza innata che anima Mia e che, infine, la conduce alla vittoria. Infatti, la dedica finale ad un’amica che non ce l’ha fatta ci suggerisce, per la regista, un epilogo felice.