Grisbì di Jacques Becker usciva nelle sale settanta anni fa e ancora ci interroga su cosa voglia dire fare un film sui gangster. L’etichetta “cinema di genere” rischia sempre di nascondere l’innovazione dietro il fantasma del ripetitivo. Esistono, dicono alcuni, opere di genere di livello, laddove queste esaltano ciò che siamo già abituati a vedere, accolgono alla perfezione dei bisogni già presenti nello spettatore, che, guardando il film, non trova che conferme delle proprie aspettative – anche quando si tratta di conferme stupefacenti. Esiste poi, a parere degli stessi, un cinema di genere che scardina con l’abitudine e inventa qualcosa di nuovo, sorprende o perfino disturba. Si dimentica, in entrambi i casi, che il cinema di genere nel senso più alto non è un eccesso di conferme o di inventiva, ma la capacità, per così dire, di porsi a metà tra queste due. Grisbì è un film di questo tipo, che strania le nostre abitudini percettive di spettatori e rompe, per picchi di drammaticità, sapiente uso delle coreografie tra personaggi, sottili allusioni alla critica sociale, con il cinema del passato e del presente, elevandosi ad opera che appartiene al genere e lo rinnova.
Inutile ribadire l’importanza di questo film nella definizione dei tratti che distinguono il personaggio del gangster, l’immaginario del malavitoso ai margini della società, la vita notturna. Tutto ciò è raccontato attraverso una tipica dinamica che coinvolge un protagonista consapevole dell’illusorietà della propria posizione sociale e un coacervo di personaggi che svolgono il proprio ruolo senza mettersi in discussione. Da un lato l’individuo tenebroso e confidente, sicuro della propria imperturbabilità, dall’altro tutti quelli che gli appaiono come le maschere di un ripetitivo gioco di ruoli.
Il titolo originale Touchez pas au grisbi – quanto mai importante ricordarlo visto la censura di alcune scene subita dalla versione italiana – evidenzia come il bottino al centro delle dispute attorno a cui ruota il film, il “grisbì”, sia l’oggetto dalla cui difesa dipende l’intreccio narrativo. La questione è sfacciatamente elementare e proprio su questo poggia la vena ironica del titolo. Si tratta di mettere o non mettere le mani su un tesoro il cui valore è incalcolabile. In palio non vi è questa o quella somma di denaro, ma il trionfo della vita da gangster, il suo giungere a compimento o il suo completo fallimento. Perciò l’occupazione del gangster è quasi un anti-lavoro, non c’è accumulo progressivo, non c’è costanza o impegno prolungato, ma solo l’occasione improvvisa che determina l’avere tutto o il non avere niente: aver fatto un colpo di tale portata da permettere di passare tutta la vita nell’agio o morire provandoci.
Il bottino di lingotti d’oro, sebbene sia la chiave di volta della storia, è già nelle mani nella coppia di protagonisti, Max (Jean Gabin) e Riton (René Dary), gangster che hanno già compiuto la rapina prima dell’inizio del film e che si troveranno, semplicemente, a doverla difendere. La stanchezza per il mestiere e in generale tutto ciò che esso comporta per la vita sociale, le feste e le bevute, mostrata fin dall’inizio da Max è il riflesso di una prostrazione che il film incorpora nella narrazione. Il fatto, il crimine, non ci è dato vederlo, siamo già alla fine degli eventi. Dovremmo rilassarci e gioire per lo spropositato e improvviso guadagno e tuttavia il congedo dalla vita criminale appare più difficile di quanto sembri. Forse – questo il film lo implica a più riprese – non è tanto l’azione a contare, quanto tutto ciò che c’è intorno, le reazioni degli altri, i tentativi di ingraziarsi chi si è appena arricchito e quelli di fregarlo per sottrarre il bottino.
Il film è ambientato nel sottobosco della Parigi criminale: una città il cui sfarzo non ha nulla da invidiare a quello dell’altro polo sociale, altrettanto chiuso, dell’aristocrazia che vive all’apice della piramide sociale. È forse in questa analogia che si gioca il velato meccanismo satirico, che raggiunge delle punte critiche senza mai essere perentorio. La vita spendacciona, adornata dal lusso dello champagne e delle serate eleganti che associamo all’immaginario dell’alta borghesia parigina non è poi così diversa dalla sua macabra emulazione fatta dai malavitosi, criminali, ladri e ruffiani che fanno da protagonisti in questo film. La differenza tra l’uso diretto della violenza nei rapporti con gli altri, nel dominio patriarcale esercitano alla luce del sole e nei modi più beceri, nei tradimenti tra compagni, nei sotterfugi, nella mancanza di fiducia, che caratterizzano il mondo dei gangster e l’altro mondo, che in qualche misura è anche il nostro, è difficile da determinare. Condividiamo almeno una parte delle aspirazioni dei gangster. Il successo ha per noi lo stesso aspetto che ha per loro.
Questo è però anche un film sullo sfinimento che giunge con l’età che avanza, con la realizzazione che il sogno, tanto concreto da essere ad un passo dalla realizzazione, sfuma non tanto a causa della sua eccessiva ambiziosità, quanto per la piccola presa di coscienza che si accompagna alla maturità. Crescere è anche divenire realisti, rendersi conto che ciò per cui si è tanto lottato non ha un valore intrinseco. Con questo atteggiamento, vediamo Max trascinarsi per le strade notturne della città, non del tutto perso, ma cambiato. Ormai non si riconosce più nei sogni infantili della vita spericolata, ma rispetta ancora il valore dell’amicizia, per questo farà di tutto per portare il suo compagno Riton, alla sua stessa realizzazione. Ma vedremo con il finale – questo sì, movimentato – che ritirarsi dalla vita criminale richiede più sforzi di quanto potrebbe sembrare.