In Taxi Driver l'(anti)eroe Travis Bickle auspica ripetutamente la venuta di un secondo diluvio universale che possa ripulire le strade corrotte di New York, intesa come simbolo e icona di una civiltà che non è in grado di riconoscere il male sistemico e storico che la affligge. In questo contesto l’essere umano, proprio come Travis, o si adatta e accetta di sacrificare se stesso, o viene risputato dal sistema che l’ha creato e compromesso rispetto alla sua consustanziale ricerca della felicità.
Da questa angolazione, potremmo dire che l’America descritta da Scorsese nel 1976 non è cambiata di una virgola se la si mette a confronto con il mondo finzionale di Good Time (Safdie Brothers, 2017), un thriller metropolitano sorprendente e tra i film maggiormente passati in sordina in Italia. Ad un primo livello, infatti, quello più superficiale, Good Time racconta di una rapina andata a male per mano di due fratelli e criminali di basso cabotaggio, Connie (Robert Pattinson) e Nick Nikas (Benny Safdie), e del tentativo da parte del primo di recuperare il fratello arrestato dalla polizia per fuggire insieme in Florida.
In realtà Good Time (qui il trailer) è un saggio di sociologia dell’immaginario americano[1] e al tempo stesso un resoconto cinico e spietato del suo sistema giudiziario. Infatti, postulare un legame immaginifico tra il cinema dei fratelli Safdie e quello di Martin Scorsese non è un esercizio di filologia del cinema, è una vera e propria dichiarazione d’intenti riscontrabile nello stesso linguaggio filmico di Good Time. Come il cinema del loro maestro putativo, sotto la cui supervisione il film è stato prodotto – a conferma di un legame che si sarebbe consolidato con Diamanti grezzi, di cui Scorsese risulta tra i produttori esecutivi – Good Time sembrerebbe riproporre e confermare alcune strutture profonde dell’immaginario americano.
Secondo il puritanesimo, infatti, il tempo non è progressivo, bensì ciclico. In questo senso, chi detiene il potere, politico e simbolico, cerca di attuare delle strategie di contenimento del Male, affinché questo venga espulso o perlomeno rinchiuso. Da questa prospettiva, il destino di Connie è quello di cercare disperatamente una via di fuga, non certo di redenzione. Ma in un sistema di pensiero così rigido e altamente simbolico come quello americano, è la componente della predestinazione a fare la differenza, la quale sembrerebbe però essere negata a Connie, nonostante egli percorra un viaggio tutto in una notte per recuperare suo fratello, e ingaggiare così insieme un percorso di attraversamento dello spazio per raggiungere “un’ultima frontiera”.
Ma come da precetto, le vite di Connie e Nick sono segnate, are doomed, ossia controllate da un fato superiore che, in qualche modo, valica la loro volontà. Good Time, in questo modo, riesce con grande ingegno a riproporre uno degli high-concept più interessanti del cinema americano postmoderno, quello del one-night-movie, ossia di quei film il cui sviluppo narrativo si articola nell’arco di una sola giornata e/o notte. Così il tempo del racconto e il tempo raccontato vanno a coincidere.
I precedenti sono illustri, e vanno sicuramente dal Fuori orario di Scorsese (After Hours, 1985) a Tutto in una notte di John Landis (Into the Night, 1985). Nondimeno, la ruvidezza e il modo di filmare la suburbia newyorkese ricorda anche il cinema di John Cassavetes e il suo Una notte d’estate (Gloria, 1980). Lo specifico filmico dei Fratelli Safdie, però, non consiste nel citazionismo o nella metanarrazione, ma nel provare ad inserirsi in un canone, in un percorso linguistico e drammaturgico sulla corruzione sociale e umana a cui il medium cinema può rispondere soltanto con le sue strutture di significato: piani sequenza frenetici e disomogenei, verosimiglianza linguistico-dialogica, e recitazione ipernaturalistica. Nell’era delle “teorie post-tutto”, il cinema dei Fratelli Safdie unisce tradizione e innovazione, dandone prova nell’interpolazione di meccanismi narrativi da New Hollywood e di un’estetica al neon da fare invidia al miglior Nicolas Winding Refn.
Per tornare, invece, alla critica sociale professata da Good Time, risulta necessario svelare qualche aspetto sul percorso dei personaggi di Connie e Nick. Connie è un galeotto, un bugiardo cronico e narcisista, cresciuto nel quartiere sbagliato e nella famiglia sbagliata, per il quale la strada del crimine è l’unica realtà possibile. Nick, invece, soffre di disabilità cognitive-comportamentali, e pertanto è succube dell’atteggiamento del fratello. Tuttavia, nel momento in cui Nick viene portato in carcere per la tentata rapina si trova in un contesto estremamente aggressivo, che da un lato potrebbe alimentare lo stereotipo delle carceri come luogo di depravazione e di impossibilità di redenzione, dall’altro lato invece descrive lucidamente un sistema che fa volentieri a meno delle sue mele marce.
Quest’ultimo assunto è esplicitamente dichiarato dal personaggio di Ray (Buddy Duress), un ex galeotto che il giorno stesso della sua scarcerazione torna sulle strade del crimine, e sottotestualmente dalla storia di Connie. Infatti, il passato alluso di Connie ci restituisce il profilo di un individuo estremamente aggressivo, ai limiti del sociopatico, che non ha imparato nulla dalla sua esperienza in carcere. In questo senso, diventa legittimo chiedersi se non sia fallimentare un sistema privo di un Welfare largamente diffuso e che non riesce a ri-educare i suoi detenuti né a re-inserirli nella società, ma che piuttosto sembrerebbe auspicare una loro ricaduta per poterli nuovamente rinchiudere nel pandemonium carcerario.
Dato il loro destino già segnato, quali potrebbero essere le prospettive di vita ed economiche per un individuo come Connie? La via del crimine torna dunque ad essere l’unica strada possibile in una società che non scommette su chi è più in difficoltà e non dispone dei mezzi di sussistenza necessari per garantirsi la predestinazione puritana. Ancora una volta si delinea uno scontro ricchi contro poveri, e una guerra al massacro annunciata di cui si conosce già l’esito trionfante.
Good Time, distribuito in America dalla sempre interessantissima A24, è il secondo film ufficiale dei fratelli Josh e Benny Safdie dopo Heaven Knows What (Id, 2014) e dopo una lunga gavetta nel mondo del documentario e della cultura underground. E, seppur solamente accennato, risulta interessante riflettere sulla scelta intraprendente dello stesso Robert Pattinson di contattare i due registi per collaborare con loro, e sulla possibilità di discutere della figura di Pattinson come quella di un ipotetico anti-divo che sceglie accuratamente i progetti a cui prendere parte. Good Time, infatti, gioca proprio col suo corpo attoriale, ancora una volta decostruito e de-mitizzato, e con la sua recitazione debordante e ultra-naturalistica.
Con l’ausilio delle musiche elettro-allucinogene di Oneothrix Point Never e una canzone di Iggy Pop che commenta l’ultima e memorabile sequenza del film, Good Time si pone dunque come una riflessione su chi si può salvare e chi è condannato a morte nella società americana, sul binomio The Pure and The Damned.
Riferimenti bibliografici:
[1] Per uno studio approfondito dell’immaginario americano e delle sue strutture profonde rimando a F. Tarzia, E. Ilardi, Spazi (S)confinati. Puritanesimo e Frontiera nell’immaginario americano. La talpa-Manifestolibri, Castel San Pietro Romano (RM) 2015.