La maggioranza degli studenti di cinema, ma anche degli appassionati, conoscerà sicuramente il famoso aneddoto che Hitchcock dice a Truffaut, nel famoso libro intervista edito nel 1966. Quello dove, nello spiegare la sua idea sulla “fedeltà” di un adattamento, parla della «storia delle due capre che stanno mangiando le bobine di un film tratto da un bestseller e una capra dice all’altra: “Personalmente preferisco il libro”». Di minore popolarità, ma forse più incisivo, è tuttavia un ragionamento che Hitchcock, parlando sempre degli adattamenti, fa una cinquantina di pagine addietro, poco prima di iniziare il discorso sulla suspense. Qui, l’autore statunitense cerca di spiegare a Truffaut perché, sebbene molti suoi ammiratori lo desiderino, non adatterà mai Delitto e castigo o un qualsiasi altro romanzo di Dostoevskij.
Il critico allora trent’enne dei «Cahiers du cinéma», entrato perfettamente nel pensiero del maestro della suspense, giunge, con l’approvazione dello stesso Hitchcock, a un’affermazione particolare: «per definizione un capolavoro è qualcosa che ha trovato la sua forma perfetta, definitiva». Tale enunciato porta il regista britannico a concludere come sia impossibile realizzare un bel film tratto da un capolavoro letterario, in quanto il dispositivo cinema non potrebbe riuscire ad aggiungere nulla di più a quelle parole così perfette, che, allo stesso tempo, non possono essere trasposte senza alterare la natura stessa di un mezzo caratterizzato da un linguaggio essenzialmente visivo. È fondamentale tenere a mente questo assunto prima di iniziare un qualsiasi discorso sull’ultimo film di Leonardo Guerra Seràgnoli, Gli indifferenti (trailer), disponibile on demand su Sky Primafila, Mio Cinema, Apple TV, Chili, TIMvision e Infinity e adattato dall’omonimo romanzo del 1929 di Alberto Moravia.
Usando le stesse parole di Moravia, romanzo d’esordio dell’autore romano, Gli indifferenti «è una critica abbastanza acerba di una data società», sebbene il suo intento, mentre lo scriveva, non fosse quello di attuare una critica moralistica alla società alto-borghese, ma di creare uno stile che fondesse il romanzo e il teatro. Tralasciando momentaneamente il suo intento iniziale (intento che comunque, è doveroso sottolineare, il regista e co-sceneggiatore Guerra Seràgnoli ha colto egregiamente), la potenza stessa de Gli indifferenti risiede in quell’opposizione che emerge fuori. Opposizione che riguarda sì una determinata classe, ma, nel profondo, l’incapacità di quel determinato ambiente di portare avanti un’autocoscienza. Si hanno così dei personaggi alienati da se stessi e dalle azioni che gli capitano intorno. Capitano, perché nella loro totale indifferenza un qualsiasi moto d’azione è anche lontanamente impensabile, e perciò tutto ciò che succede durante la narrazione si ritrova semplicemente a capitare ai protagonisti, del tutto inermi e immobili.
Guerra Seràgnoli coglie subito la potenza intrinseca che tali personaggi, con la loro indifferenza, sprigionano e la loro capacità di essere autonomi dall’epoca stessa in cui sono stati percepiti. Decide quindi, per non perdere la forza stessa di queste anime amare, di riadattarle al mondo d’oggi, fatto di realtà virtuale, videogiochi e Twitch. Un’analisi della contemporaneità, ma pur sempre rilegata all’interno di quell’alta borghesia che sta pian piano morendo, intossicata dalla sua stessa muffa. Questi due mondi mostrano da subito, già solo nominandoli, una forte discrepanza. Discrepanza che il regista collega al romanzo stesso tramite lo scontro tra Carla e Michele: i due protagonisti indiscussi de Gli indifferenti, deputati tali tanto da questo adattamento, quanto da Moravia stesso, sebbene con un cambio, non irrilevante, di focus (se Moravia aveva dato maggior risonanza al protagonista maschile, nel film ciò è riservato al personaggio femminile).
Nell’opera letteraria, l’autore romano segue parallelamente il percorso di sopravvivenza dei due fratelli. Alla fine del loro arco, il processo di adattamento alla società sarà radicalmente opposto nel modo di reagire o di non reazione di Carla e Michele. Se in Carla, seppur, inizialmente, unica portatrice di un qualche tipo di coscienza morale e, dunque, unico personaggio che potesse aspirare a un qualche tipo di salvezza da questa generale indifferenza, si arriva a un adattamento doloroso all’ipocrisia della società in cui vive, in Michele tale adattamento non riesce del tutto. Infatti, continua a ripetere le proprie non azioni e alla fine rimane statico, fingendo di accontentarsi di qualcosa che non ha la forza né la voglia, né di accettare né di contrastare.
Nell’adattamento cinematografico, la contraddizione intrinseca a Michele (Vincenzo Crea) rimane forte e intaccata, mentre è Carla (Beatrice Grannò) a mutare, esattamente come è mutata, d’altronde, la figura femminile nel mondo, nella letteratura e nel cinema contemporanei. Di Carla, Guerra Seràgnoli prende quella spinta emotiva e di azione e la costruisce lentamente, ma con costanza, portandola radicalmente agli antipodi rispetto a Michele (che continua a rappresentare quel mondo malato e decadente dell’alta borghesia) e rispetto al suo omonimo letterario. Carla diventa, quindi, un “respiro”, uno spiraglio d’aria, una scappatoia da quell’opprimente indifferenza.
Per giungere a tutto ciò, il regista si fa forza dello stile teatrale di Moravia, lasciandolo intatto e potenziandolo grazie ai meccanismi tipici del cinema, dalla fotografia all’estremo voyeurismo. Nell’introduzione, sempre di quella famosa intervista, Truffaut, parlando del grande maestro della suspense, sostiene che Hitchcock decide di non immischiarsi nella vita, ma di guardarla, ponendosi alla stregua di alcuni «artisti dell’angoscia», come Dostoevskij, Kafka e Poe, capaci di condividere «con noi le loro ossessioni», aiutandoci, così, «a conoscerci meglio». È qui che emerge il grande dilemma che riguarda questo attuale adattamento de Gli indifferenti. Nonostante uno stile visivo quasi impeccabile, l’impossibilità ipotizzata da Truffaut e da Hitchcock nell’adattare un capolavoro si fa forse sentire e neanche poco.
Il motivo per cui ciò accade è alquanto semplice: il film di Leonardo Guerra Seràgnoli, infatti, non si distacca dal romanzo, ma, al tempo stesso, non trova neanche una sua dimensione autonoma e, soprattutto, non la trova a livello del puro linguaggio cinematografico, qui eccessivamente legato a quello teatrale. Certo, quest’ultima scelta, come anticipato, è essenziale per cogliere l’essenza dello stile di Moravia, peccato che se il romanziere mixava questa teatralità a una forte letterarietà, questo mix nel film, che sarebbe dovuto avvenire con la specificità stessa della macchina da presa, non avviene e viene lasciato in un grigio limbo. Si ha, quindi, una riproposizione quasi identica all’atmosfera dell’omonimo romanzo, ma priva della sua specificità, che viene sostituita da un’innovazione dell’ambientazione e dei personaggi. Ciò, tuttavia, sebbene interessante (soprattutto per il ruolo e la risposta che si ha da parte della protagonista femminile), rimane qualcosa di già visto.
Insomma, Gli indifferenti di Leonardo Guerra Seràgnoli è un bel film, godibile, registicamente bello, con una fotografia quasi perfetta ecc. ecc. ecc., eppure rimane il fatto che, finita la visione, non puoi far altro che chiederti, con la stessa indifferenza dei protagonisti,: “e allora?”. Rimane quella sensazione che si ha nello sfogliare una rivista nella sala d’attesa del proprio medico di base. E se questo sia un punto di forza o una debolezza del film stesso, alla fine, purtroppo, allo spettatore resta una questione alquanto indifferente.