«There never was a woman like Gilda!»: così nel trailer originale del 1946 viene presentata Gilda, uno dei personaggi più memorabili del cinema noir, “cucito” su Rita Hayworth dal regista Charles Vidor, la Columbia Pictures e l’intero entourage.
La trama sembrerebbe tra le più classiche. Siamo a Buenos Aires, nel 1946. Ballin Mundson (George Macready), paranoico proprietario di una bisca, sua moglie Gilda, e il baro Johnny Farrell (Glenn Ford) instaurano un triangolo amoroso alimentato da odio e passione, tra morti dissimulate, illegalità e perversione. Ma Gilda, lungi dall’essere il semplice ritratto di una qualunque femme fatale hollywoodiana – malgrado le aspettative della tagline – è, a modo suo, un noir «culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo»[1]. Nel secondo dopoguerra, infatti, l’equivoca e appassionata capitale argentina diventa un luogo «in cui l’eroe occidentale affonda nello smarrimento e nella tentazione della perdita di sé»[2].
I personaggi del noir, generalmente, sono psicologicamente machiavellici. A caricare di tensione Gilda, poi, è il fatto che nessuno dei tre protagonisti ha una visione lucida dei fatti. L’enigmaticità è resa visivamente dal chiaroscuro della fotografia di Rudolph Maté, vincitore di cinque premi Oscar, che rimanda all’ambiguità dell’espressionismo tedesco: le ombre sono tanto protese da sembrare distaccarsi dai personaggi e le loro silhouettes si stagliano contro lo sfondo. Emblematica è la prima inquadratura, in cui la camera si sposta dal dettaglio in primo piano di due dadi da gioco al volto del baro sullo sfondo, Johnny.
«L’odio è un sentimento molto eccitante»
Gilda porta sullo schermo impulsi sessuali tanto fantasiosi quanto possibili. Ma Charles Vidor, essendo ancora vincolato al Production Code, guida morale del cinema degli anni Trenta, sembra celare l’omosessualità latente di Johnny e Ballin, messa in luce dalla critica europea e dagli stessi Ford e Macready[3], e tradurre la repressione delle pulsioni in misoginia e in una forte allusività del linguaggio del corpo. Ballin afferma che «la sua donna non fa parte della categoria delle donne», ma vanta di possedere un “little friend”, un bastone che nasconde una lama retrattile – forse anche un rimando alla violenza –, parte di un brindisi “a tre” tra il boss e Johnny.
Tuttavia, è Johnny a mettere in discussione il sottinteso con Ballin quando brinda nuovamente “a tre” con la coppia di sposini. Rievocando il momento analogo succitato, con sorpresa dell’amico, si riferisce all’arma come a «una donna, perché sembra una cosa e all’improvviso, sotto i tuoi occhi, ne diventa un’altra, completamente diversa», alludendo alla sua relazione pregressa con Gilda. Ballin, che non ne è al corrente, mescolando insicurezza e impotenza, si eccita al pensiero del rapporto di odio e amore represso tra sua moglie e il suo amico. Seppure Gilda si accoda al richiamo di Johnny, definendo la presunta donna – ovvero lei stessa – una “strega”, ella è profondamente innamorata di Johnny, nonché scaramantica e affatto “ammaliatrice”. Ma, al contrario di quanto si dica nel trailer – «This is Gilda! Beautiful… Deadly… Using all a woman’s weapons – in Love – and for Revenge!» – Gilda non usa la sua bellezza come arma, né per vendetta.
Parlando per archetipi, la controparte della femme fatale, spregiudicata e adescatrice, consapevole della sua sensualità e sessualità, è – dovrebbe essere – il tough guy. Tuttavia, dal momento che gli uomini in Gilda sono affatto “tipi tosti”, piuttosto due calcolatori presi a risolvere i propri tormenti, Gilda stessa esula dalla tradizione della dark lady: oggettificata dallo sguardo distorto dell’uomo – e dalla macchina da presa che si ferma ossessivamente su di lei – la protagonista tenta di risolvere il conflitto interiore tra sé stessa e la maschera che le è stata fatta indossare. Gilda non è una manipolatrice, è anzi ella stessa facile preda: senza aura di mistero, semplicemente appare, tirando indietro i capelli e alzando il viso agli spettatori. Anche se la pellicola è costellata di esibizioni di Gilda, coreografate da John Cole, sia in “Put the Blame on the Mame” che “Amado Mio” la spavalderia è maschera dell’insicurezza, e le esibizioni ferine espressione della disperazione. In “Put the Blame on Mame” Gilda canta della colpa data ad una femme fatale che non vuole essere etichettata come tale.
Nonostante il corpo sia inteso come strumento di emancipazione, e non di compiacenza per l’uomo, nella memoria collettiva si è sedimentato lo “spogliarello” con il guanto, che scatena la fantasia dei presenti. Parte del mito di Gilda, infatti, è l’abito indossato in “Put the Blame on Mame”, il più famoso mai disegnato da Jean Louis e ispirato al quadro Portrait of Madame X (1884) di John Singer Sargent. Il soggetto indossa un vestito che lascia esposta tanta pelle da richiamare alla nudità, soprattutto a causa della scandalosa spallina caduta – poi coperta dal pittore – che dava la sensazione, secondo «Le Figaro», che le vesti cedessero da un momento all’altro. Anche se Louis impara la lezione, ingegnandosi per evitare che Gilda rimanesse seminuda, per il «New York Times» l’abito di raso è sinonimo di un’estrema sessualità.[4]
Gilda, Rita Hayworth o Margarita Cansino?
Allontanandoci dalla pellicola, scopriamo come non solo il retroscena della produzione di Gilda ricalchi il del triangolo affettivo della trama – il capo della Columbia Pictures era estremamente geloso di Rita, a sua volta vittima di frequenti scontri con Vidor – ma l’intera vita della Hayworth sembra essere un’eco al film.
Rita Hayworth nasce come Margarita Carmen Cansino e ben presto segue il padre, un ballerino spagnolo, in tournée. È nel 1935, con l’entrata alla Columbia Pictures, che il suo look comincia ad essere costruito a tavolino: diventata “Rita Hayworth”, viene sottoposta ad interventi di elettrolisi per ovviare ad un’attaccatura dei capelli considerata antiestetica, e successivamente tinta di rosso. Inevitabilmente, in Gilda si tracciano riferimenti allo star-system di Hollywood come macchina per la produzione dei sogni. Seppur “Gilda” rappresenta un rilancio per l’attrice, la Hayworth è consapevole del processo di creazione della sua icona: «Gli uomini si innamorano di Gilda, ma si svegliano con me». Tanto è vero, questo, che l’unico personaggio con cui intrattiene un dialogo umano è zio Pio (Steven Geray), barbiere del casinò, che, accendendole una sigaretta, le chiede: «C’è tanta gente eppure si è tanto soli, non è così?».
Rita Hayworth, la “Dea dell’amore”, dopo Gilda è ovunque. Nell’estate del 1946 un suo ritaglio viene incollato, assieme alla scritta “Gilda” sulla bomba atomica lanciata sull’atollo di Bikini: la Hayworth – o Gilda? – era a tutti gli effetti uno “schianto”. Due anni dopo la pellicola viene proiettata in Italia. In Ladri di Biciclette (Vittorio De Sica, 1948), Antonio si accinge ad appendere un poster di Gilda proprio quando la sua bicicletta viene rubata. Pier Paolo Pasolini intitola Amado Mio un libro pubblicato postumo, in riferimento al film che i protagonisti vanno a vedere nell’estate del dopoguerra, ovviamente, Gilda. Ultimo, ma forse familiare ai più, il personaggio di Jessica in Chi ha incastrato Roger Rabbit (r. Robert Zemeckis, 1988), che non è un riferimento solo estetico a Gilda, ma anche morale: «Non sono cattiva, è che mi disegnano così!».
SITOGRAFIA
Emanuel Levy, Gilda (1946)): Charles Vidor’s Erotic Film Noir-Sexual Repression, Perversion, Masochism, and Latent Homosexuality, in emanuellevy.com, 2006;
Sheila O’Malley, The Long Shadow of Gilda, in criterion.com, 2016;
Cristina Sivieri, «Gilda», la dolce femme fatale di Rita Hayworth, in npcmagazine.it, 2020;
Kimberly Truhler, Femme Fatale Rita Hayworth Puts the Blame in 1946’s GILDA, in glamamor.com, 2014.
[1] E per questo conservato nel National Film Registry della Library of Congress degli USA.
[2] Renato Venturelli, L’età del noir, Giulio Einaudi Editore spa, Torino, 2007, p. 58.
[3] Vito Russo, Lo schermo velato, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 101.
[4] Fields, Jill (2007). An intimate affair: women, lingerie, and sexuality. University of California Press. pp. 149–50