Quando morì, nell’Aprile del 2018, Takahata venne ricordato per i diversi capolavori di cui fu l’ideatore, sia televisivi (Heidi e Lupin III tra tutti) sia cinematografici (La tomba delle lucciole o La storia della principessa splendente). In quella rosa di opere per le quali veniva issato all’immortale memoria, mancava spesso Pom Poko (trailer). L’inferiore notorietà di questo titolo, però, non va ad intaccare la freschezza e l’attualità di questa eco-favola dell’ormai lontano 1994, il cui messaggio risuona ancora più forte, forse, grazie a questa decantazione.
Con Pom Poko il classico amalgama di tradizione e modernità di Takahata è essenziale: al centro del racconto un gruppo di procioni che deve fronteggiare l’erosione del loro spazio vitale, a vantaggio dello sviluppo urbano della periferia di Tokyo. La loro arma è una soltanto: l’arte della trasformazione. Infatti, riprendendo la figura mitologica dei tanuki, i procioni hanno la particolare abilità di potersi trasformare in tutto ciò che vogliono, da un pentolone a, con la dovuta concentrazione, un umano. Prima con le buone e poi con le cattive cercheranno così di combattere per il loro diritto di sopravvivere.
Se la trama potrebbe sembrare banale, l’abilità di Takahata spazza via la noia. Un narratore ha il compito di far progredire la storia, donandole imprevedibilità, ritmo, vivacità. Queste stesse caratteristiche risuonano nello stile di animazione. O forse sarebbe meglio dire stili. Uno stile fiabesco, ma realistico, per le scene di trasformazione, uno naturalistico per le scene dove i procioni cacciano il cibo o si spostano nella foresta, uno minimalista per le reazioni esasperate tipiche della cultura giapponese si alternano a seconda delle esigenze narrative. Si ha, quindi, una coabitazione di stili differenti che si compenetrano, dialogano e diventano uno spettacolo per gli occhi, soprattutto in scene corali come quella nella quale i procioni cercano di spaventare un intero quartiere con una gigantesca parata di creature mitologiche, scheletri e fantasmi.
La vivacità stilistica riflette in pieno quella dei procioni, che non si perdono mai d’animo nella loro battaglia, che implica perdite da un lato e dall’altro (arrivano ad uccidere tre umani in un atto di eco-terrorismo). Rimangono fiduciosi di farcela, di sopravvivere, forti anche della loro millenaria coabitazione con gli umani e la padronanza dell’arte della trasformazione. Sono, altresì, consci di come molti altri animali non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza al di fuori del loro habitat naturale.
Il film si conclude, quindi, con una richiesta di comprensione per i più deboli, di coesistenza armonica, ma soprattutto di una modernità che non sia annichilente: perché l’ideale per l’uomo, per quanto perfetto e comodo, implica la morte di tutto ciò che è diverso. Ma i procioni sono consapevoli che questi umani, laboriosi, potenti come gli Dei tanto da poter spianare montagne e foreste a loro piacimento, sarebbero in grado di realizzare un’armonia che giovi a tutti. Cambiare si può, insieme.