Il Florence Underground Film Festival (FUFF per gli amici) ha visto la luce per la prima volta nel fine settimana del 29 e 30 giugno, sotto le poche stelle che si vedono da Rifredi. È importante specificare il quartiere non tanto per orgoglio campanilista, quanto per il fatto che un festival di cinema indipendente a Firenze, perlopiù in una zona generalmente percepita come periferica, è sostanzialmente una novità assoluta; oltre che una necessità.
Arrivando in auto dal centro, prima di svoltare per la via dove si è tenuto il festival, si incontra l’ospedale di Careggi, che già di per sé non è una premessa delle più allegre; e intorno alla storica CdP “Le Panche”, e al Genepì (il suo bar, messo su da un gruppo di ragazzi solo pochi anni fa), non c’è molto: principalmente, un po’ di asfalto, e le macchine che corrono di passaggio. Bisogna quindi avere l’accortezza di fermarsi nell’oasi che è il giardino illuminato dietro a un cancello dipinto di blu, e scendere un vialetto piastrellato per arrivare a sedersi — rigorosamente all’aperto, che è pur sempre estate — sulle sedie nere del FUFF.
A detta degli organizzatori (e per benevolenza ci fidiamo), nonostante fosse questa una primissima edizione, i corti ricevuti sono stati quasi cento; solo dodici sono stati selezionati, per un totale di cinque categorie di premiazione. Opere prime, di animazione, in bianco e nero, di impeccabile fattura o deliranti che fossero (se non entrambe le cose insieme), i corti proiettati hanno comunque visto un apparente fil rouge connetterli fra la prima e la seconda serata: un ibrido fra l’horror, il thriller e l’azione, una impulso sottile che ti spingesse sempre, anche nelle storie più (apparentemente) gentili, verso the edge of the seat. A guardare meglio però, sistemandosi bene gli occhiali, oltre i pixel più o meno visibili e le apparecchiature di ogni operetta, ciò che le lega in fondo è sempre l’indipendenza — o meglio, l’indipendente, inteso come genere, come modo di essere (e restare) e di proporsi al pubblico: pochi soldi, quindi; ma tanta cura. Mettere su un festival come questo, in una città come Firenze, preda di una turistificazione cataclismatica e di una gentrificazione che vi ci ha affondato i denti con gusto, richiede un atto di coraggio non indifferente. Questo traspare anche dalla speranza velata di chi è intervenuto tra un film, un corto, una discussione e l’altra: la speranza e l’impegno a poterlo ripetere anche l’anno prossimo, a poter rimettere su il proiettore e le casse anche come moto di resistenza verso una città che si fa sempre più difficile a viversi.
Fra i corti selezionati, vincitori e non, ce ne sono alcuni che — per un motivo o per l’altro — hanno brillato di una genialità tutta loro. Inserito nella selezione della prima sera, Aspic (trailer), diretto da Ottavia Starace e Giorgia Moraca, è breve ma tagliente come un coltellino svizzero: in piena pandemia, un rider si risveglia dalla panchina che gli fa da giaciglio, per andare a ritirare un ordine nella taverna di un oste che ha tutta l’aria di essere un non-morto. Preso in mano un ciambellone di gelatina sembra essere spuntato fuori da un buco spazio-temporale fra il futuro e gli anni Settanta, si presenta alla porta di una villa isolata: si ritroverà a subire una fine tragica — per non dire commestibile, sulla colonna sonora di una giornalista del TG che incoraggia a restare in casa. Un commento affilato e sardonico sulle ineguaglianze esacerbate dal lockdown, su chi comodamente da casa ordinava pizze e vestiti e su chi, invece, una casa sicura da cui consumare non ce l’aveva; e restava fuori a consegnare.
Parking review, proiettato invece durante la sera di domenica e diretto dal giovanissimo Davide Curto, è un corto caotico quanto geniale. Carico di una comicità deadpan, inizia come si presenta: una recensione dei parcheggi di Bergamo, guidata dall’entusiasta e vanesio Sergé e dal taciturno Giovanni, assoldato in quanto ingegnere del cemento, ma che sembra preferire starsene in un angolo, sotto il suo cappellino di lana calato fin sopra gli occhiali. Del cameraman non conosciamo altro che l’ombra e qualche parola di risposta alle indicazioni di Sergé. Fra una desolata colata di cemento della provincia padana e l’altra, però, le frustrazioni di Sergé causate dai silenzi di Giovanni e dalle dimenticanze del cameraman aumentano vertiginosamente, fino a trascinarlo in una spirale psicotica e assurda di violenza. Parking review è un inno al mockumentary, un tentativo dissacrante, volutamente caotico e insieme ben riuscito, di sottrarsi alle logiche sfrenate di marketing che avviluppano fin troppo spesso l’arte del fare cinema in piccolo.
A vincere ben due premi (“Premio FUFF” e “Premio speciale del pubblico”) è stato invece Kvara – A story of love and soccer, (trailer), il racconto ironico e insieme struggente di un ragazzo dello Sri-Lanka che, tuffatosi nei festeggiamenti per lo Scudetto del Napoli per vendere sciarpe e bandiere, riceve una telefonata dalla moglie che — dall’altro lato di una città che ha fermato tutti i suoi mezzi pubblici per i festeggiamenti — sta partorendo. L’arrivo provvidenziale di un vicino di casa gli permetterà di arrivare in ospedale, e alla figlia verrà dato il nome di Kvara (il centravanti del Napoli), nome che purtroppo, anni dopo, comunque non le garantirà di ottenere facilmente la cittadinanza italiana. Calandosi nella festa eclatante dello scudetto, con delicatezza e senza mai timori i registi Raffaele Iardino e Mario Lombruno portano sul palcoscenico il racconto sincero di una città vivida e amatissima pur con tutte le sue problematiche e di un Paese che non è stato ancora capace di fare veramente i conti con il suo razzismo sistemico.
Un’ultima menzione speciale merita indubbiamente Retribution for the priest (trailer), un corto tutto sardo (dai luoghi brulli e assolati, fino alla lingua) e dal sapore tarantiniano, con Francesco Tomba e Chiara Tesser alla regia. Tratto da un racconto di Salvatore Giua, da cui il cortometraggio eredita l’afflato verghiano, Retribution for the priest è tutta la gioia di vedere su schermo quello che potremmo chiamare un culurgiones western, una novella imprevedibile che si diverte delle astuzie e avidità umane.
La qualità di questi cortometraggi ci dice, implicitamente, una cosa molto importante: e cioè che il modo di fare cinema così c’è, ed è possibile, e ci sono persone da entrambi i lati (che siano gli artisti o gli organizzatori, anche perché queste due categorie talvolta coincidono) che hanno tutto l’entusiasmo, e la volontà, che ci vogliono per tenerlo in piedi, nonostante tutta la fatica che costa. È facile dimenticarsi del cinema che — contro ogni aspettativa — sopravvive tenace e testardo al di fuori dei multisala e dei red carpets, che resiste grazie ai crowdfunding e al tempo sacrificato per pura passione; ma il FUFF, per fortuna, ha aiutato a ricordarlo.