Negli ultimi dieci, quindici anni l’avvicendamento tra medium cinematografico e videoludico si è fatto sempre più affiatato. In particolare è il secondo che in questo relativamente breve lasso di tempo ha acquisito competenze e capacità di riflessione che lo hanno spinto a imporsi sempre di più come un mezzo di esplorazione artistica svincolata dalla negativa e infantile accezione del ludico in cui è stato relegato per molto tempo.
Basti pensare al modo in cui opere come The Last of Us Parte II e Death Stranding – per citarne un paio recenti e noti, ma anche Red Dead Redemption 2, Control, God of War 3, What Remains of Edith Finch, Horizon Zero Dawn, Star Wars Jedi: Fallen Order e potremmo andare avanti per tutta la pagina – hanno assorbito dal cinema per profondità narrativa ed elaborazione dello strumento registico. Per poi conciliare il tutto, ovviamente, con le opportunità offerte dall’interazione alla quale l’utente è chiamato.
E mentre il videogioco portava avanti questa sua piccola, grande rivoluzione volta anche alla nobilitazione del medium, il cinema inteso in senso lato (ora più che mai) ha arrancato un po’ a tenere il passo e a trovare reali fonti di rinnovamento. Film come Avatar sono eventi spartiacque ma epocali (ne parlavamo anche in questa intervista), e quindi il cinema nell’ultima decade si è ritrovato spesso a pensarsi all’interno di quello specchio dove è riflesso di una locomotiva che non viaggia più a vapore ma su binari a levitazione magnetica.
Arrivano, insomma, opere come Ready Player One che è un pulp per eccellenza perché compatta trent’anni di convergenza dei medium su schermo e arriva anche Free Guy (trailer), prodotto da una 20th Century Studios che non vedevamo in sala da un po’. E per un Free Guy abbiamo una Free City, spazio virtuale che ricorda estremamente da vicino un qualunque server di Grand Theft Auto Online, o più un generale un moderno mmorpg (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game, dove ogni utente ha un avatar e interpreta una parte, in soldoni).
La cosa curiosa di Free Guy è che però non veniamo introdotti all’interno di questo mondo passando attraverso il visore in realtà aumentata del Wade Watts di Ready Player One, quindi dell’utente. In realtà a presentarci la terra delle opportunità di Free City dove “quelli con gli occhiali” (gli utenti) fanno quello che gli pare, è proprio quel Free Guy lì che dà il nome al film. Si chiama, ovviamente, Guy, ha un guardaroba tutto uguale, la mattina mangia cereali, beve caffè, lavora in banca e ha le sembianze di Ryan Reynolds. Fine. Le uniche lievi variazioni di questa routine giornaliera sono le modalità con le quali la banca di Guy può venire rapinata o il modo in cui lo stesso Guy può finire ammazzato nel tragitto che separa il suo appartamento dal lavoro.
E prima che ce lo dica il film stesso, i più avvezzi al videogioco non faranno fatica a individuare nel povero Guy un PNG, ovvero un personaggio non giocante, marionetta inserita all’interno di un codice per popolare uno spazio virtuale il cui unico scopo è quello di creare uno spessore alla mercé di un utente pronto a sconvolgere, demolire e straziare tutto ciò che lo circonda. La vita programmata di Guy viene però stravolta per davvero il giorno in cui incrocia per strada MolotovGirl, personaggio (stavolta giocante) di Milly (Jodie Comer). Da qui il suo codice subisce una variazione e Guy decide di prendere in mano il proprio destino, rubando un paio di occhiali (terminale di realtà aumentata all’interno della realtà finzionale di Guy) ed entrando egli stesso nel gioco di cui è un elemento strutturale, con svolte che vi lasceremo scoprire da soli.
Ci sarà ovviamente l’interazione con il mondo reale, luogo dipinto come pieno delle cagnesche dinamiche di lavoro che vedono l’arte di Milly e Keys (Joe Keery) contrapporsi alla legge del denaro sonante di Antoine (sì, Taika Waititi), a espressione delle battaglie tra colossi e compagnie indie che nel contesto videoludico sono forse polarizzate ancor di più che in quello cinematografico. Tra un first person shot e un inserto di reali star di YouTube o Twitch, nel solco ideale di quella che è la gamification, l’elemento su cui Free Guy va a ragionare in maniera più stimolante è però il punto di vista sul concetto di intelligenza artificiale.
Quello di IA è un termine evocato quotidianamente quando si discute di come i PNG reagiscono all’interno di un determinato videogioco, ed è anche uno dei principali crucci dei team di sviluppo. Non si tratta ancora mai realmente di vere e proprie intelligenze artificiali (sarebbe una reale rivoluzione), ma di pattern o codici comportamentali sempre più complessi che si intersecano e diramano ma sempre a partire da canali predisposti da chi ci lavora.
Di Free Guy è quindi curiosa la scelta di prospettiva, che si cala al di dentro di luoghi virtuali concepiti come “vivi” in un contesto di condizione postmediale come lo è la contemporaneità, e vincente anche grazie al corpo comico di Reynolds che non ha bisogno di recitare realmente quando gli basta essere se stesso. Questa unita al riconoscimento di come nel videogioco si stia combattendo non solo la battaglia sul piano artistico, ma anche quella su un lato tecnico (per ora) non di competenza del mezzo cinematografico.
Il film diretto da Shawn Levy e sceneggiato dalla coppia Matt Lieberman – Zak Penn sembra chiedersi anche, con onnipresente ironia e sarcasmo, se alla luce di questo non sia anche necessario rivedere l’approccio etico che si ha all’interno di una fruizione videoludica. E sorprendentemente, per una volta, non il modo in cui il videogioco distorce l’etica dell’approccio al mondo esterno. Ma, per questo, siamo sicuri che la discussione abbia ancora molta strada da percorrere.