Il viaggio di un testo scritto sembra essere potenzialmente infinito. A dimostrare la possibile immortalità di un libro è proprio, in questo caso, un testo che su immortalità ed etica della scienza si interroga in maniera esemplare: Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley (prima edizione 1818). Il numero di film e prodotti televisivi nonché riscritture si perde nel tempo e per certi versi non si è nemmeno sicuri del numero preciso, poiché alcune opere dell’epoca del muto sono ormai perdute.
Il testo di Mary Shelley rappresenta ancora oggi una base fertile per l’esplorazione creativa e riesce a secoli di distanza a conservare la sua natura morale e la sua carica etica, il testo si trasforma adattandosi ai nuovi media, ma non accenna a spegnersi ed è oggi come ieri un parametro basilare per la valutazione del rapporto dell’uomo con la natura e le sue più oscure ambizioni. Nel 2011 il Royal National Theatre di Londra mette in gioco una delle rielaborazioni più alte qualitativamente del decennio, in grado di trascendere la sua natura teatrale e mostrarsi un perfetto ibrido fra cinema, teatro e audiovisivo, vivendo più volte nelle diverse declinazioni della multimedialità.
L’adattamento del testo originale viene curata da Nick Dear, che riesce ad estrapolare dal libro la natura più moderna e innovativa dei personaggi riportandoli in vita in una forma compatibile con un pubblico multigenerazionale. La regia dello spettacolo è invece nelle mani di un maestro del cinema contemporaneo inglese come Danny Boyle, che si fa carico anche della regia audiovisiva dell’opera.
La vera sorpresa della versione del 2011 di Frankenstein consiste però nel cast e nei ruoli assegnati. Benedict Cumberbatch interpreta sia la creatura che il creatore alternandosi nella parte con Jonny Lee Miller. Ai più attenti lettori non sarà certo sfuggito a questo punto il gioco extradiegetico che Boyle sfrutta ad arte per creare infinite possibilità di speculazione fra due diversi classici della letteratura come il Frankenstein ed il personaggio di Conan Doyle Sherlock Holmes. Negli anni della rappresentazione teatrale infatti sia Cumberbatch che Miller erano impegnati nelle riprese di due diverse serie televisive in cui impersonavano lo stesso personaggio: Sherlock Holmes. Per la precisione Sherlock della BBC aveva già trasmesso la sua prima, stagione mentre Elementary della CBS era in produzione.
In effetti lo stesso Danny Boyle si sdoppia come i suoi protagonisti, dirigendo sia la versione teatrale che supervisionando il lavoro di riprese dell’audiovisivo destinato a regolare uscita cinematografica. Il progetto così sviluppato protrae la sua vita fino al 2020 quando, in occasione dell’emergenza Covid, l’opera ritrova una nuova identità digitale tramite eventi in streaming su Youtube offerti dal National Theatre. Per lo spettacolo teatrale Boyle sfrutta al meglio il palcoscenico circolare meccanico del National Theatre utilizzando le trasformazioni fluide dello spazio scenico come esperienze dal vivo, che evocano i movimenti di camera cinematografici. Allo stesso tempo le camere posizionate in carrelli laterali al cerchio centrale rispettano nel movimento la geometria della scena ed intensificano la percezione di circolarità nello spettatore in teatro come al cinema o in streaming.
Cerchi, semicerchi, corse in tondo che rappresentato astrattamente crescita e mutazione dei personaggi diventano un tema ricorrente nell’opera e si impongono come metafora di una continuità della vita e della morte in una presenza perpetua delle cose che sembrano ricordare al creatore ed alla creatura la natura perversa dell’esperimento di Frankenstein. Il cerchio della vita diventa la costante anche nella regia audiovisiva che sfrutta la geometria della scena esaltandola nelle inquadrature così come nei movimenti di camera o nelle scelte del montaggio. Il cerchio così ostentato diventa quindi una metafora continua del ventre materno, la placenta che genera la creatura e a cui la creatura vorrebbe perpetuamente tornare, una condizione di tormento e desiderio, che riemerge tanto nella regia fisica che in quella filmata attraverso ad esempio le inquadrature delle pose fetali della creatura, una condizione a cui il personaggio ritorna dopo ogni esplosione emozionale sulla scena.
La creatura è raccontata come un bambino nel corpo mostruoso di un uomo assemblato con pezzi provenienti da vari cadaveri. Un bambino che impara a camminare, a parlare, a nutrirsi e a comprendere cosa sia il mondo in cui vive. Agli occhi degli uomini il bambino è solo un mostro orribile da percuotere e cacciare, da cui fuggire o da prendere a pietrate per allontanarlo con repellenza, obbligando così lo spettatore a interrogarsi su chi sia il vero mostro, se il bambino creato fuori dalla natura o se gli uomini che vedono in lui solo, appunto, un mostro.
Dear e Boyle riscrivono Shelley puntando sulla visione freudiana della crescita dell’individuo: nelle pulsioni e nelle invidie troviamo il figlio che si confronta con il padre, che lo contrasta, lo emula o che lo venera in un percorso continuo di crescita, tormento e confronto che eleva questo Frankenstein oltre la media delle sue canoniche riduzioni. Forse dietro alla scelta di sdoppiare la creatura ed il creatore si nasconde la volontà di creare uno specchio, un luogo invisibile dove le due coscienze si confrontano con i loro segreti, dove il figlio si specchia nel padre e viceversa ed entrambi non possono più nascondersi, obbligati a guardarsi nello specchio fra l’uomo ed il mostro.