Un fiume in piena che non può essere fermato: Manon Rivière, dal cognome premonitore, è la protagonista del primo lungometraggio del regista franco-svizzero Hugues Hariche, Rivière (trailer).
Manon (Flavie Delangle) è una ragazza svizzera che sta vivendo gli ultimi anni di un’adolescenza travagliata. Vuole trovare suo padre, che l’ha abbandonata da piccola insieme alla madre. Arrivata in Francia a Belfort, dove vive il padre, non lo trova, ma viene accolta dalla nuova compagna di questo. Grazie al suo talento per l’hockey, in città farà amicizia con un gruppo di giocatori e di pattinatrici, trovando se stessa attraverso lo sport e il rapporto amoroso difficile con Karine (Sarah Bramms): una pattinatrice infortunata con una dipendenza da antidolorifici.
Il film si concentra esclusivamente sulla maturazione di Manon: ciò è allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza. Volendo dimenticare alcuni piccoli strafalcioni di sceneggiatura facilmente evitabili, il film ha il pregio di far restare la narrazione sui personaggi. D’altra parte, c’è da ammettere che non sono presenti molti livelli di narrazione o più chiavi di lettura: esistono solo i personaggi, nient’altro, neanche il contesto sociale in cui vivono.
Questa scelta di sceneggiatura potrebbe nascondere, dietro la volontà di astrarre il film dall’ambientazione contemporanea, l’incapacità di inquadrare il contesto storico in maniera originale e a-temporale. Un campanello d’allarme di ciò lo si ha nel primo atto: che resta il momento più difficile da digerire a causa della mancanza di scene originali e delinea così un inesperienza nel campo della scrittura. I dialoghi purtroppo non incalzano la narrazione: si ha la sensazione che siano semplicemente i primi venuti in mente agli sceneggiatori.
Nonostante la presenza di questi errori relativamente trascurabili, Rivière parla coraggiosamente di abbandono, dipendenze, suicidio e omosessualità: quest’ultimo tema in particolare è trattato con grazia e naturalezza, senza ricadere negli stereotipi dei film LGBTQ+ contemporanei.
Dimenticando alcuni poeticismi registici di troppo, che si rifanno goffamente all’impressionismo, la messinscena è secca, diretta. Il regista con i pochi mezzi che aveva (poco più di 2 milioni di euro) riesce a centrare il segno, vincendo anche alcune sfide difficili: come, per esempio, le scene dove i personaggi pattinano e giocano a hockey su ghiaccio. Per ovviare a molti problemi, solo pochi protagonisti sono attori professionisti, mentre gli altri attori sono tutti giocatori di hockey o pattinatori preparati ad hoc per recitare per l’occasione.
La fotografia è timida, ma è da considerarlo un pregio del film. Si è optato, probabilmente a causa del budget esiguo, per un look neutro, facendo così di necessità virtù e rimanendo, anche dal punto di vista visivo, sulle storie dei personaggi, senza distrarsi.
In altre parole la storia di Manon che sceglie le lame dei pattini sul ghiaccio al posto di quelle del rasoio sulle braccia, si scaglia come un dischetto da hockey verso gli spettatori. A difendere la porta ci sono tutti gli errori legittimi di un regista-sceneggiatore al suo primo lungometraggio, ma non sono abbastanza per impedire che Rivière vada a segno.