DassCinemag è lieta di dare il via a un ciclo di interviste basate sulla figura del critico cinematografico e il cui scopo è quello di andare a confrontare i differenti approcci di pensiero dei vari ospiti, attraverso i quali tenteremo di delineare una panoramica dei profondi mutamenti che questa professione sta subendo ai tempi del web. Le interviste saranno strutturate su una serie di domande uguali per tutti, in modo da creare un’orizzontalità che marchi le differenze tra gli intervistati, alle quali si aggiungeranno poi degli interventi mirati a sottolineare e sondare le particolarità dell’ospite in questione.
Ci interessava iniziare con il parere di un critico più vecchio stampo, ma allo stesso tempo a cavallo del cruciale cambiamento dettato dall’arrivo di internet. Partiamo quindi con la prima firma ad averci concesso il suo tempo e la sua gentile disponibilità: affermato critico de Il Messaggero e figura chiave del sito BadTaste, Francesco Alò.
Qual è il tuo concetto di critica e all’interno di esso come stabilisci l’equilibrio tra opinione e criterio oggettivo? Sempre in quest’ottica, le esperienze e il vissuto cinematografico di un critico all’interno di un’analisi quanto devono uscir fuori?
La critica nasce quasi contemporaneamente al cinema ed è una branca del giornalismo. L’ho sempre vissuta e affrontata così ed è in questo modo che diventa una forma di lavoro. Io personalmente mi indigno quando sento definire “La critica” con una totale mancanza di storicizzazione, per una pratica che è cambiata moltissimo e che è al momento in un periodo delicatissimo. La critica è sempre da cambiare, da reinventare ed ecco perché non sopporto i conservatori, coloro che intendono la critica come quella degli anni ’60 e che non accettano le nuove forme di linguaggio; tutta la critica è critica ed è scomponibile in moltissimi aspetti. Un critico è soltanto una persona che esprime delle opinioni su dei film con un editore che lo paga, pratica che tra l’altro tende sempre di più a scomparire. La cosa che oggettivizza la critica è solamente il rispetto nei confronti del cinema come prodotto audiovisivo a pagamento di massa. Il mio poi è un approccio drammaturgico alla figura del critico attraverso lo humor: provengo dalla critica quotidianista e da lì faccio trasparire l’affanno di chi arrivava a scrivere anche 40 o 50 articoli al mese. La critica è sempre stata soggettiva e mai oggettiva. L’oggettività è folle e scorretta da un punto di vista intellettuale perché gli editori e gli stessi critici sono animati da pulsioni e da ideologie, traumi, gusti e tanto altro, esattamente come l’individuo privato. Questo ti porta a parlare di un film prima di tutto da un tuo strettamente storico punto di vista e ciò già distrugge l’oggettività. Una persona nata nel 1974 non può avere minimante lo stesso approccio a un prodotto audiovisivo di una persona nata nel 1991, è impossibile perché il cinema era diverso, come era diverso il mondo e il nostro modo di porci. L’oggettività è una delle cose più ridicole e fasciste del mondo e farò sempre humor contro quegli imbecilli intellettuali che la rivendicano. Sono una vita che sto in mezzo ai critici e li conosco come le mie tasche; alcuni critici non riuscivano a vedere il Signore degli anelli perché erano cresciuti in un’Italia per cui Tolkien era fascista e sono gli stessi che ai convegni parlano di oggettività. Come posso io accettare una cosa del genere? “Godard è oggettivo”, ma che stronzata è? Anche perché sono proprio loro ad averci insegnato il contrario, dato che a Hitchcock la critica non se lo è filato per anni. Bisogna studiare la storia, io con i miei 46 anni un po’ di storia l’ho anche vissuta e vi posso assicurare che i critici non sono oggettivi. È quanto di più folle si possa pensare ed è giusto che non lo siano. Poi va considerata la figura degli editori per il critico del ‘900, che hanno delle proprie ideologie, strategie e interessi economici. Gli editori non compravano i giornali perché erano buoni, potevano decidere se far stroncare un film se andava contro i loro ideali ed interessi, come racconta Rondi nel documentario fatto da Giorgio Treves, che vi consiglio di vedere. La critica ormai ha perso interesse politico, così come il cinema ha perso importanza politica all’interno della società.
Sembra poi che oggi lo spettatore sia disabituato a cogliere dei sottotesti politici e sociali in un film.
È naturale che lo sia, se tu ci pensi prima le immagini erano di meno. Adesso siamo circondati di immagini e hanno perso l’impatto che avevano un tempo.
Come vedi la figura del critico oggi e in che modo credi abbia impattato l’avvento di Internet? Reputi che abbia perso importanza sociale nel tempo o si sia solo mutata e adattata?
Alla base della figura del critico c’è da fare un discorso salariale che nessuno vuole fare. C’è stato un crollo salariale che la vecchia generazione di critici non vuole ammettere, in quanto privilegiati per aver sempre guadagnato tanto. Questo mestiere era ben pagato, come tanti altri, e la mia generazione ha subito in prima persona questo crollo. La critica per me era ed è ancora un lavoro, ma non so se lo sarà ancora nei prossimi anni. Per mantenerlo vivo è indispensabile parlare di salario, ciò che rende un lavoro tale e non solo un passatempo. È un mestiere che è sempre più difficile fare e che per voi giovani sarà impossibile fare, a meno che non troviate delle nuove incredibili fonti di guadagno, come Twitch appunto. Per quanto riguarda l’importanza sociale, oggi viviamo un paradosso legato alla socialità e in questa follia della percezione. Ha una grande importanza “social”, ma non so quanta ne abbia sociale. Poi c’è da considerare un altro paradosso che il lavoro del critico deve affrontare: oggi c’è una maggiore cultura cinematografica, già rispetto a quando io ero giovane, figuratevi a prima. Ora questo dislivello tra critico e pubblico, anche grazie a internet, è estremamente più basso e rischia di distruggere il critico stesso, che per far fronte a ciò deve accrescere ancora di più la sua cultura, ma è pagato sempre meno per farlo. Ed è qui che si torna al discorso salariale, che è alla base di tutto. La situazione quindi è molto difficile, ma allo stesso tempo eccitante e stimolante per creare nuovi spazi e linguaggi che si adeguino ai tempi che corrono. Il fatto dell’approccio al pubblico senza la mediazione dell’editore porta alcune questioni. Innanzitutto, la pubblicità, che in mancanza di un capo che ti paga, sarà indispensabile. Ci sarà da vedere in che modo si guadagnerà, ma non sono esperto di questo mondo e non so se questo sposalizio tra prodotto e influencer toglierà libertà al critico. Ed è questo che spaventa noi che veniamo dal ‘900 e che abbiamo avuto un rapporto con l’editoria più o meno contrastato, ma comunque riconoscibile per i nostri parametri culturali. I critici pagati ci sono sempre stati, ma a quel punto sarà qualcosa di visibile a tutti e che potrebbe inficiare la credibilità di chi parla.
A fronte di una deresponsabilizzazione dell’utente e del discorso che facevamo sul critico che sfocerà nell’influencer, non essendoci più la figura dell’editore che copre le spalle adesso la novità è che tutto è sul critico, compreso il fattore della pubblicità, come se diventasse di fatto imprenditore di se stesso.
Saranno cazzi infatti… Già siamo una figura estremamente fragile, mettici pure che l’editore ti dava la sicurezza economica e la possibilità di avere un ruolo, nel giornale, nella piattaforma o ovunque sia. Se poi il critico deve essere indipendente e autonomo dalla ricerca economica, è molto più facile che venga comprato. Ma l’interesse di oggi, a differenza di quegli anni, è calato; il produttore una volta aveva considerazione della critica, adesso è diverso. Io poi sono affascinato dalla donna, perché entra in un gioco diverso. Mi incupisce molto vedere queste colleghe che devono stare in tiro a differenza nostra e come al solito sul corpo della donna si fa un gioco sporco e diverso da quello che si fa con l’uomo. Non so cosa diventeremo, sarà fondamentale però avere qualcuno che ti paghi per studiare. Io ho un grande rispetto per l’accademismo cinematografico: è molto importante studiare i film anche tanti anni dopo che sono usciti e mi piacerebbe molto fare un lavoro accademico.
In un mondo in cui si legge sempre meno, si è avvertito sempre di più, anche in questo campo, il passaggio dallo scritto all’audiovisivo. Il format della recensione, ad esempio, sopravvive anche grazie al forte supporto datogli da piattaforme come YouTube, Twitch o altro. Durante questo passaggio cosa si perde e cosa si aggiunge invece?
Molti critici della vecchia generazione snobbano il video, come se fosse più facile. Sono semplicemente linguaggi diversi e questo approccio fa capire le diverse generazioni. Per loro un video era una cosa da fare così; già per me e soprattutto per voi il video è diverso. Oggi ormai è tutto video, perché la società richiede che sia così. Mi sono accorto recentemente di una cosa molto interessante: io sono cresciuto leggendo sui libri di cinema delle parole che riportavano dei grandi fatti. Ho notato come quelle cose, che creavano grande aneddotica, sono diventate video. Mi ci sono imbattuto varie volte in questo fenomeno e inizialmente pensavo fossero coincidenze, ma poi ho capito che non lo sono. Un esempio è una frase che lessi di Tarantino su uno dei primi libri che uscì su di lui, dove chiedeva a Terry Gilliam come riuscisse, da un punto di vista lavorativo, a essere così riconoscibile in ogni suo fotogramma. Mi sono ritrovato poi un video di Tarantino che parla proprio di questo, così come altri episodi simili. Un domani non ci saranno più libri, tutto sarà video, tutta la storia lo sarà e voi sarete una generazione chiamata a lavorare molto con il video. Quindi è ovvio che la critica stia diventando e sarà video. Poi su di me personalmente, la scrittura ha ancora molto valore: io scrivo per i video, non li faccio a caso. E per scrittura dei video intendo anche il corpo: chi sei, come ti muovi, come parli; attraverso questo ho creato la drammaturgia del “critico cinematografico di merda”, un’espressione molto seria, per cui c’è il critico perdente in mezzo alla gente che sbaglia, fa errori, è stanco, depresso, arrabbiato, ma ci prova. Tutto questo lo crei attraverso il video. Una mia amica, che ha lavorato tanti anni in televisione, mi ha fatto notare che io non divento cattedratico quando vado in video e non cambio postura o atteggiamento facendomi fottere da me stesso. Per non stancare, ti devi impegnare e forse avere questo atteggiamento mi aiuta. La scrittura mi dà una mano per com’è fatto il mio cervello; nella mia vita ho scritto tanto, basti pensare a quanti articoli scrivevo e scrivo (ora molto meno) per il Messaggero, ma anche per riviste, saggi, un libro. Io quindi provengo dalla scrittura, domani si verrà dal video e non mi disturba che dopo che morirò sarà così.
Considerando la situazione di passaggio in cui siamo tra critico del ‘900 e quello del web, quali consigli puoi dare a un giovane che vorrebbe provare a intraprendere questo mestiere in questo momento di incertezza?
Il critico percettivamente sembra un lavoro figo, ma in realtà è un bagno di sangue devastante e che porta a una vita di solitudine. Sono sempre più depresso e sempre più povero. Moltissimi giovani mi scrivono dicendo che vogliono fare i critici; un tempo rispondevo con una tale tristezza che a confronto Woody Allen era un ottimista, per poi finire con una battuta che mio marito (che è una donna) detesta: il vecchio deve essere depresso e deve ammonire spaventando, il giovane se ne deve fottere delle ammonizioni del vecchio e deve mandarlo affanculo. Poi concludevo dicendo che “io ho fatto il mio lavoro e ho svolto il mio ruolo deprimendoti con tutte ‘ste cose, adesso sta a te che mi hai scritto fregartene di tutto ciò che ti ho detto”. Un’altra cosa che rispondo spesso è che una volta era molto più facile fare il critico del regista, oggi è il contrario. E guardate che è vero, non è una provocazione. Io ho avuto anche fortuna, sono del ‘74 e a 25 anni, a fine anni ’90, ho beccato in pieno l’esplosione di internet che mi ha aiutato tantissimo. Oggi paradossalmente è molto più facile fare il creativo che il giornalista, ovviamente parlando del mestiere, poi le vie di mezzo e le ambiguità ci potranno sempre essere. Tornando alla questione, è un lavoro molto difficile che richiede serietà e la credibilità del giornalista, che porta a crearti un seguito. In un mondo in cui c’è un algoritmo che ti consiglia quali film vuoi vedere, il critico serve a fare una sorta di animatore (ciò che io provo a fare) e deve avere la capacità di calarsi tra le persone, capire cos’è il cinema per ognuno di noi e aver voglia di parlarne con tutti, rispettandone i gusti, cosa che vedo fare molto poco al giorno d’oggi; c’è questa voglia di scontrarsi e questa paura dell’opinione diversa che per me è aberrante. Bisogna capire se ciò che è stato un lavoro rimarrà tale, se e come cambierà, con la speranza di un opinionismo indipendente soggettivo più o meno pagato a seconda della sua capacità di essere apprezzato da persone che lo pagheranno direttamente, dal consumatore al critico. Vedremo cosa succederà, gli influencer fino a poco fa erano considerati il peggio del peggio, ora guarda dopo il primo maggio. Sono diventati i nuovi Che Guevara, tutto cambia e soprattutto ora.
Essendo tu un critico a cavallo di questo passaggio guidato da internet, hai parlato spesso del tuo rapporto con il tuo editore e al contrario del tuo “non rapporto” con chi commenta o talvolta chi “critica le tue critiche”. Quanto però è importante a oggi il rapporto con il pubblico, che sostanzialmente ha preso il posto dell’editore, stabilendo gran parte del guadagno?
Io non leggo i commenti sotto le mie recensioni e mi considero intelligente nel farlo. Il mio editore inizialmente non capiva il perché, ma poi ha compreso che non è per snobismo, semplicemente istinto di sopravvivenza.
Ho notato però che con Twtich ultimamente inizi a farlo.
Sì con Twitch sto iniziando a farlo, ma è diverso, perché posso mandarli in diretta a quel paese. Oggi il critico è circondato da grande cultura e una grande presenza di cinefili, un mondo che si sta sovrappopolando, il che è un disastro, perché molto spesso sono le persone più antipatiche; non ne ho mai capito il perché, dato che il cinema è una cosa bellissima. Perciò devi lottare strenuamente per avere un senso, nel momento in cui le persone sono già estremamente competenti e in grado di esprimere opinioni, anche attraverso ad un’infinità di fonti che io non avevo. È cambiato tutto, oggi tutto è afferrabile e io appartengo ad una generazione che si emozionava quando andava al Filmstudio a vedere in pellicola dei noir degli anni ’50, non perché sia un feticista della pellicola, sia chiaro. Adesso se vuoi vedere un film lo vedi, puoi recuperare un film ovunque e in mille modi diversi. Per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, da figlio di Woody Allen e Monty Phyton, mi spaventa molto quest’idea della massa che adora la persona che parla, perché penso sia profondamente sbagliato e fascista. Io non la voglio, vorrei poter dire le mie cazzate non dovendo avere un rapporto con loro tale da doverli far stare sempre contenti. Questo è molto pericoloso e non vorrei che si andasse nella direzione in cui ogni critico ha il suo esercito da scagliare contro l’altro.
Il critico del ‘900, dicevi prima, era un lavoro basato sul colmare l’ignoranza del pubblico, e ora che c’è più cultura cinematografica come si rapporta al discorso che può fare l’influencer/critico in tutto ciò? È uno svuotamento dell’offerta e del lavoro che può mettere in atto il critico?
In realtà lui dovrebbe semplicemente aumentare la competenza, ma qui si torna nuovamente al paradosso, perché è sempre meno pagato e dovrebbe lavorare sempre di più. Come se ne esce da questo me lo spiegate voi, perché io ancora non lo so. Con le pubblicità forse, ma sei attaccato da tantissimi fronti e occorre una presenza e una forza psicologica e fisica che un tempo se la sognavano. Un tempo il critico non era così conosciuto, adesso invece c’è un’esposizione che ti porta a stare sempre ad un passo dalla “shitstorm”.
Hai più volte conflittualmente parlato del rapporto che hai con i vecchi critici che ti hanno preceduto e dell’approccio al cinema totalmente diverso che hai rispetto a loro. In particolare, cosa condividi e cosa invece non sopporti di quella generazione nell’approccio in questo lavoro?
Ho vissuto in primis questo cambio generazionale spezzato dall’arrivo di internet, con cui ho cominciato alla fine degli anni ’90, ancora prima di arrivare a Il Messaggero. C’è stata questa collisione, un po’ come Fedez con la Rai, solo che prima vinceva sempre la Rai. Adesso invece ci si sta prendendo una rivincita ed è questo il grande cambiamento degli ultimi 20 anni. All’epoca chi lavorava per internet come il sottoscritto non guadagnava niente ed eravamo disprezzati dai critici della carta stampata, in quanto minaccia formatasi su una nuova piattaforma che li terrorizzava. Io sono stato a metà strada tra questi due mondi, tra una vecchia critica e una vecchia Italia sempre più debole e sempre più isolata, ma allo stesso tempo sempre più forte e inserita in un sistema in cui si autoalimentava, e una invece più viva, ma troppo più povera. Io detesto questi vecchi critici “boomer”; la mia generazione di mezzo ha cercato di arruffianarseli, ma si è traumaticamente resa conto di non poter essere come loro, di non poter vivere e guadagnare come facevano loro. Sono oramai vittime e schiavi psicologicamente di quella generazione e ripetono come degli zombie di serie b i loro movimenti di pensiero. La cosa più triste è che danno del boomer a me e questa è l’ennesima vittoria dei veri boomer, che passano inosservati pure stavolta. Io li contesto da sempre e sono sempre stato solo nel farlo. Negli anni mi sono dato la spiegazione che vogliono scimmiottare un modo di fare e un modo di essere che loro non sono riusciti ad ottenere. E non c’è niente di più triste di una generazione che ne scimmiotta un’altra. Loro secondo me neanche amano il cinema e più fanno questo mestiere e più lo detestano, mentre io invece più lo faccio e più lo amo. Poi più invecchio, più lo amo e lo rispetto e quindi più faccio fatica a stroncare, anche registi che non sopporto, come Christopher Nolan o Paolo Sorrentino, che rappresentano tutto ciò che non sopporto nel cinema e sono all’opposto di tutto ciò che io credo anche nella vita, con tutto il rispetto dovuto. Ma è molto importante che loro ci siano: questa violenza e prevaricazione dello stroncare non mi piace, anche se l’ho fatto anch’io da ragazzino e alcuni dicono che lo faccio ancora, anche se non mi ci vedo più.
La tua carriera ti ha portato a lavorare per giornali, riviste, piattaforme video, scuole di cinema e tanto altro. In quale ambiente ritieni di aver dato il meglio di te e di esserti sentito più a tuo agio? Hai rimpianti di esperienze che avresti voluto (o vorresti ancora) vivere di più o al contrario che avresti evitato?
Nonostante abbia fatto quasi tutto, c’è qualcosa che ancora vorrei provare, ovvero diventare canale di me stesso e farmi i cazzi miei, pensando alle cose più assurde, prendendomene la responsabilità e vivendo di questo. Mi spaventerebbe moltissimo, ma per un pirata pazzo e curioso come me sarebbe molto affascinante. Anche lavorare con voi, avere un’equipe di giovani che magari si occupano di social. Mi aiuterebbe molto perché adoro stare con i giovani, imparare da loro e mi ci diverto tantissimo nel mio lavoro. Non so se funzionerebbe e se la baracca reggerebbe, ma mi affascina moltissimo l’idea dell’attività imprenditoriale. Potrebbe anche arrivare un’offerta dal vecchio mondo e se la prenderò, sicuramente mi sentirete ammettere, a differenza di altri, che prendo bene e che sono più tranquillo nel farlo per me, mia moglie, il mutuo, i miei traumi e il mio modo di concepire me stesso; mi basterebbe vivere del mio mestiere. Oppure la cosa più traumatica, sarebbe lasciare tutto e andare da un’altra parte. Adesso ho 46 anni e mi sono convinto che prima dei 50 anni ci sarà uno scossone enorme nella mia vita che mi porterà a prendere una decisione importante. Poi parlando sempre di ciò che vorrei fare, un altro format che la critica dovrebbe sperimentare è l’incontro dal vivo e una sorta di spettacolo. Personalmente avevo già provato un’esperienza simile, che avevo chiamato “un film, una storia”, dove io parlavo di un film un po’ alla Federico Buffa mischiando analisi filmologica con aneddotica e cornice storica, scomponendo il film in sequenze. Invece tra le mie esperienze, una molto forte è stata fare il direttore artistico in una scuola di cinema privata, che mi ha aiutato moltissimo ad incontrare il cinema faccia a faccia. Però l’esperienza più sperimentale e dove più cose sono andate ad incastrarsi, è stata BadTaste, in cui penso di aver stupito me stesso ed è stato fantastico.