In una delle scene centrali di Carol, le due protagoniste siedono al tavolo di un ristorante. L’elegante Carol (Cate Blanchett) scruta Therese (Rooney Mara) incuriosita dalla giovane ragazza: «What strange girl you are». L’altra, coprendosi timidamente la bocca con un gesto contenuto le chiede il perché. «Flung out of space», risponde Carol. Therese non dice nulla. Si limita ad accennare un sorriso imbarazzato e ad abbassare gli occhi. La sequenza è breve, ma racchiude tutta l’enigmaticità del rapporto di fascinazione reciproca tra le due donne. È un inno alla cauta semplicità della giovane attrice. Capelli raccolti, sorriso esile, sguardo glaciale. Rooney come Therese parla poco. Alle domande (molteplici nella campagna mediatica per il film) sulla scena di sesso con la Blanchett, non si scompone. Come Therese, sorride per un attimo prima di rispondere con grande professionalità. Dietro l’obiettivo di una macchina fotografica, dietro il vetro di un automobile in movimento, il suo volto è sempre filtrato, misterioso, distante. Rooney Mara sullo schermo è l’attrice timida e riservata che si vede poco al di là di esso – «flung out of space» – e per questo estremamente affascinante.
Cosa ha a che fare la timidezza con il mestiere dell’attore? Nulla, o evidentemente tutto. Da sempre molto riservata, Rooney nasce in una delle famiglie più influenti della upper side society, quella dei magnati della NFL (New York Giants da parte di padre, Pittsburgh Steelers da parte di madre). «Tutti gli altri erano in tuta che mangiavano cibo spazzatura e io ero lì con i vestiti della domenica» dice raccontando a Seth Meyers della sua routine domenicale da adolescente allo stadio. La cosa, come è facile immaginare, la imbarazzava terribilmente. Così inizia con la recitazione, che nulla è più che un esercizio per superare quel blocco del carattere. Guardandola ora, nonostante la riservatezza persistente, risulta difficile immaginarla in altre vesti. Certo, Rooney crea meno clamore mediatico rispetto alla maggior parte delle sue colleghe («sono pigra e noiosa» dice di se su Vanityfair) ma il suo riserbo, eccezione audace alla regola, le conferisce un tocco da diva evanescente d’altri tempi, sorta di icona di stile in bianco e nero (i colori che più indossa e che in un certo senso caratterizzano i due estremi della sua personalità di star). Tra Louise Brooks e Greta Garbo, androginia e estrema femminilità. In un recente servizio fotografico per Wmagazine l’attrice posa proprio con caschetto nero e smoking maschile. Per Rooney tutto inizia alla vecchia maniera, un piccolo ruolo nell’horror Urban Legends: Bloody mary (2005). Nel film c’è anche la sorella maggiore Kate (la Zoe Barnes di House of Cards) il cui confronto ha sempre spaventato la giovane attrice. Se non fosse per il cognome e la voce sottile, le scambieremo per sconosciute dalla vaga somiglianza. Selettiva nei ruoli da interpretare – al contrario di Kate, più indirizzata verso il mainstream – Rooney sboccia grazie a David Fincher in The Social Network prima e Millennium, Uomini che odiano le donne poi. Nel primo è una semplice studentessa della Boston University (piccolo ruolo ma fondamentale nell’economia del film). Nel secondo è l’eroina punk Lisabeth Salander, tutta piercing e tatuaggi. Arrivano poi Effetti collaterali di Steven Soderbergh in cui interpreta una donna fragile in preda alla depressione (o almeno lo è per buona parte del film) e Her di Spike Jonze. Qui altro non è che un’ombra nei ricordi del protagonista a cui ha spezzato il cuore. L’attrice scivola in questi personaggi, muovendosi tra due poli opposti, tra trasformazione totale e estrema naturalezza (come a voler lasciare scoperta una parte per apprezzarne al confronto il risultato). Ribaltando la sua immagine esile, senza abbandonare del tutto quella della timida ragazza di New York che sfugge dalla luce dei riflettori. In questo le lezioni di recitazione non hanno funzionato. Ma forse è meglio così.
Angela Santomassimo
illustrazione di Françoise Tenenbaum