Greenhouse (trailer), il primo lungometraggio di Lee Solhui, è una tragedia greca, nel senso più stretto del termine. Moon-jung (Kim Seo-hyung) è una donna di mezza età; suo figlio è in riformatorio e non la telefona mai, la serra in cui vive (perché non si può permettere altro) di notte è silenziosa e desolata, e il gruppo di terapia dove siede in cerchio per cercare di risolvere i suoi problemi di autolesionismo non sembra star funzionando come dovrebbe. Ogni mattina, Moon-jung si sveglia di buon’ora e si reca dagli anziani per i quali fa da badante; lo struggente e gentilissimo Tae-gang (Yang Jae-seong), ormai completamente cieco e nelle fasi precoci dell’Alzheimer, e sua moglie Hwa-ok (Shin Yeon-sook), rinchiusa nel terrore persecutorio della sua demenza senile.
La felicità sembra quasi a portata di mano, nel piccolo appartamento che Moon-jung ha trovato e che finalmente potrà affittare grazie al prestito, per il quale subisce in silenzio e senza una singola protesta le violenze paranoiche di Hwa-ok, e sopporta senza battere ciglio la condizione di sua madre, anziana anche lei, costretta a letto e senza parola in un ospedale. Ma come vuole la tragedia il fato s’immette e non lascia scampo, e per un incidente imprevedibile Moon-jung vedrà strapparsi da sotto i suoi occhi la possibilità di tornare finalmente a vivere con suo figlio.
Non è facile abbandonare di colpo qualcosa per cui si è lottato così strenuamente e così a lungo; l’unica soluzione possibile sembra quella di attuare un piano folle, impensabile, e che tuttavia inizialmente sembra funzionare. Una menzogna s’incatena all’altra, costruendo un castello di carta che pesa come un macigno ed estenua Moon-jung, lasciandola fragile e tremante come un ramo al vento, e segnando inevitabilmente la rovina sua e di chi la circonda.
Greenhouse è un film di dolore immenso. La sua protagonista lotta con tutte le sue forze contro questa misteriosa ingiustizia che tutto vuole tranne lasciarle ciò che pure si meriterebbe, ma capiamo quasi subito che il suo destino è di fallire, definitivamente, senza scampo né redenzione; e ogni storia che costruisce, ogni persona che incontra finisce ugualmente per restare incastrata nella stessa matassa pulsante di sofferenza, ritrovandosi a battere con forza i pugni sulle pareti di spesso metallo che la vita le ha messo intorno. Non c’è scampo per i personaggi e non c’è scampo per lo spettatore che li guarda, costretto a non poter cambiare nulla di ciò che accade allo stesso modo in cui loro, per primi, cadono ogni volta come prede cieche negli artigli affilati e impietosi di crudeli coincidenze.
Greenhouse atterrisce, lascia senza fiato, con un macigno non indifferente da smaltire una volta che le luci della sala si sono riaccese, senza nemmeno la pietà di una catarsi a liberarci dalla sua verità schiacciante: e cioè che a volte qualcosa di superiore a noi lotterà con molta più forza della nostra per sbarrarci la strada, e che molto spesso questo qualcosa avrà il volto dell’ingiustizia sociale; di un paese dove curarsi dallo psichiatra costa troppo, dove un lavoro umiliante e a tempo pieno comunque non paga l’affitto, dove i ragazzini vengono rinchiusi in riformatorio senza pensarci due volte e gli anziani sono lasciati soli di fronte al desolante ignoto delle loro malattie.