L’arpeggio è il primo nostro approccio con First Cow (qui il trailer), il nuovo film di Kelly Reichardt distribuito da MUBI. La musica ci immerge da subito nell’atmosfera di un film le cui immagini tardano ad arrivare all’interno di un iconico formato 1:1, che sottolinea lo statuto che la regista vuole dare tanto all’immagine cinematografica stessa, quanto al racconto. Racconto che si dirama in un discorso che fa dell’armonia delle proprie componenti il suo cavallo di battaglia (dai titoli di testa, appunto, fino all’ultimo fotogramma), peccando forse proprio nell’incapacità di non rimanere ingabbiato dentro il suo stesso estetismo.
Classe 1964 e attiva dal 1994, Kelly Reichardt è una regista indipendente che da sempre ha cercato di fare della propria arte un modo per entrare nei meandri più intimi e profondi del discorso filmico e delle sue storie, dando soprattutto spazio e voce a personaggi spesso dimenticati nella loro naturale semplicità. La regista (ma anche sceneggiatrice e montatrice), infatti, sofferma il proprio occhio a indagare la bellezza di personaggi precari, di cui non ha voglia di risolvere l’instabilità in cui vengono colti, ma di cui vuole solamente osservare l’ordinarietà.
Kelly Reichardt non plasma, appunto, ma si limita a scavare semplicemente, ma minuziosamente, ciò che vede, di quei gesti quotidiani di cui cerca di cogliere un respiro tattile, che possa trascendere l’esistenza del singolo, scavando le pieghe di un discorso non solo esistenziale, ma anche filmico.
Bisogna, dunque, tener conto di tale propensione quando si inizia la visione di First Cow. Fin da subito, infatti, l’ultima opera della Reichardt si presta al proprio pubblico con la volontà di mostrare il proprio contenuto come un’immagine iconologica (concetto richiamato dal formato 1:1), nei termini che ne dà Peirce, che trova nell’icona quel segno che mantiene un forte rapporto di somiglianza e configurazione con l’oggetto di partenza.
Ecco allora espressamente manifesta quella volontà della regista di non voler costruire di un contenuto vistosamente artificiale, ma di regalare al pubblico (qui in veste di esploratore) una storia (perché pur sempre di cinema stiamo parlando) che possa il più possibile plasmarsi a un’ipotetica realtà. Realtà resa ancora più verosimile anche grazie al modo in cui l’1:1 enfatizza il rapporto con il fuori campo.
Se da un lato il disvelarsi lento dell’immagine, dato da quel lungo prolungarsi dei titoli di testa, immerge lo spettatore dentro la realtà, i margini del quadro sottolineano che, seppur immersi, non si possa avere una visione a 360°. Una visione che, d’altronde, non sarebbe realistica ma spettacolarizzante, idea che l’intero film respinge con forza. Come viene espresso proprio da uno dei due protagonisti: “Qui la storia non è arrivata ancora, sta arrivando, ma siamo arrivati prima noi” e infatti non si ha un racconto (che di per sé ha una natura spettacolare e antirealistica), ma una semplice vicenda.
Una vicenda quotidiana, che, però, proprio per la sua ordinarietà, costituisce qualcosa che crea stupore. Uno stupore che vediamo stampato negli occhi della ragazza che darà avvio alla cornice rappresentata da First Cow. Uno stupore che appartiene all’occhio della Reichardt, che che percepiamo nella sua mano, ma che purtroppo non riusciamo ad afferrare, come se fossimo limitati dentro un riquadro che ci affascina, ma sfugge alla nostra presa.
Insomma, First Cow è un film che sicuramente si ammira, ma che forse non si ama fino in fondo. Un’opera di cui si riconosce la grandezza e la forte coerenza armonica dove magari, se si perde qualcosa, è un po’ nel computo generale della visione e della partecipazione cinematografica.