Fino a prova contraria: la verità è sempre un’altra

Fino a prova contraria, 25 anni dal film di Clint Eastwood

Jim Mcneal indossa un completo scuro, la giacca abbottonata unicamente al primo occhiello e i suoi capelli sembrano rispondere ad un preciso ordine compositivo, pur senza rinunciare di tanto in tanto al canonico borsalino. Steve Everett, invece, non bada alla forma, accontentandosi di una camicia slavata a quadretti e di un’umilissima giacca scamosciata. Chioma: brizzolata e indifferente. I due non si conoscono, tra loro intercorrono cinquant’anni di storia americana, hanno età e tendenze diverse, non si appartengono per nulla: l’uno ha un codice ed una dignità, ama sua moglie ed entra nei bar solo per chiedere informazioni; l’altro è un adultero ex-alcolizzato, in conflitto con tutto ciò che è istituzione (matrimonio compreso). Però entrambi sono giornalisti: Jimmy scrive per il Chicago Times, Everett per l’Oakland Tribune.

Ed entrambi inchiostrano la prima pagina con casi analoghi di presunta malagiustizia: al primo viene chiesto di indagare su un polacco accusato dell’omicidio di un poliziotto (pena: novantanove anni), al secondo tocca un nero colpevole dello stesso crimine, questa volta ai danni di una commessa (pena: morte). I due internati sono compagni di sventura e d’anagrafe: entrambi si chiamano Frank. L’unica differenza è che McNeal inizialmente non crede nell’innocenza di Frank Wiecek, Steve tutt’altro: ritiene, con i primi dati raccolti, che Frank Beechum non sia il colpevole della vicenda.

«I am afraid you misjudged me»

Effettivamente, come notano Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri [1], Eastwood deve aver visto Call Northside 777, noir del ’48 speculare al suo Fino a prova contraria (trailer) e con protagonista Jimmy Stewart/McNeal. Il prologo si consumava nell’America flagellata dei primi anni ’30, proprio quando Clinton Jr. vede per la prima volta la luce calda della California. La sua storia di figlio della Depressione ha alimentato una sensibilità d’appartenenza verso i racconti del quarto decennio novecentesco (pensate anche ad Honkytonk Man), risvegliando uno spirito socialdemocratico (a lungo negatogli dalla critica di sinistra) manifestatosi attraverso il gusto per la classicità hollywoodiana. Eppure.

Quando si parla di Clint Eastwood si parla di classico, come in un’equazione assoluta, incontrovertibile. I suoi film appaiono chiari, limpidi, non c’è formalismo mostrativo che possa creare vertigini nello spettatore. Le formule metalinguistiche della grammatica cinematografica moderna sembrano non appartenere all’ uomo della prateria. E il cinema eastwoodiano ha sempre affrontato storie e generi tipicamente americani: dal noir al western, dal melodramma alla commedia, passando persino per il musical, le trame sembrano rispondere fedelmente alle esigenze dell’eroe campbell-vogleriano. Ma è proprio nei postulati basilari di questa classicità (regia essenziale e riferimento ai generi) che Eastwood ripensa e radicalizza il classico.

Riprendendo le parole di Giulia Carluccio, «Eastwood ha avviato un costante discorso di ripensamento delle forme e delle configurazioni offerte dalla retorica classica, giungendo a modalità personali di revisione e messa in discussione di queste. […] Risalirebbe alle strutture originarie delle forme classiche […] per giungere a esiti che si concedono il lusso di una libertà di pensiero al limite dell’ambiguità.[…] Tornare quindi alle radici del cinema classico per un discorso morale contemporaneo è forse un paradosso, in cui tuttavia probabilmente risiede l’autentica modernità e contemporaneità di Eastwood, regista postclassico che ripensa la classicità, piuttosto che ultimo dei classici.» [2]

E lo stesso concetto lo ribadisce Roberto Silvestri, radicalizzandolo su piani di postmodernità: «Clint Eastwood sviluppa un forte senso del cinema come punto di vista soggettivo, facendo penetrare la modernità nel racconto. […] È uno dei primi cineasti, molto prima di Tarantino, ad aver sviluppato una sensibilità postmoderna, condensando le categorie di classico e moderno. Ma c’è anche una capacità di fare politica, di raccontare la storia senza che il pubblico se ne possa accorgere: privarsi cioè di tutti quegli schemi che il cinema postmoderno rifiuta dal cinema politico, dunque il racconto della verità, che in Clint diventa il racconto di un campo di verità possibili.» [3]

fino a prova contraria, la recensione del film

Lo specchio della postmodernità

Nel 1979, Lyotard pubblica La condizione Postmoderna, testo paradigmatico per l’avvento di una nuova visione del mondo. Una visione «debole ed instabile della razionalità, il riconoscimento di una pluralità irriducibile delle narrazioni e quindi l’approdo ad una società tollerante segnata dalla moltiplicazione dei punti di vista.» [4] La realtà non può più essere contemplata come lo specchio assoluto e totalizzante della Verità, del bianco e del nero, ma, in quanto specchio, è destinata alla frantumazione in frammenti di discorso, in frammenti di verità.

Non è un caso che, coevo al manifesto lyotardiano, Clint stia realizzando Bronco Billy, la cui immagine finale appare in questo senso tra le più emblematiche della sua carriera: un grande tendone da circo costruito con un centinaio di bandiere americane che Bernard Beniolel leggerà come «ciò che l’America è e vuole dimenticare di essere: una nazione fatta della somma di tanti popoli venuti da tutto il mondo, una nazione di etnie, di minoranze, di immigrati, di paria». [5] In definitiva, di realtà.

C’è allora, in Eastwood, l’ossessiva ricerca di uno svelamento, di una demistificazione, un’operazione purificatrice dei fatti, che possa vanificarne le assolutizzazioni. Analizzare la sua filmografia limitandosi alle formule confezionate del classicismo intransigente rivela, dunque, una miopia critica che non rende giustizia alla complessità della sua opera. Certo, Clint viene dall’Universal, ama Cagney e ha il fisico di grandi divi come Stewart, Cooper, Henry Fonda. Ma la logica degli studios, famelica e spietata, inizialmente non lo riconosce. Approderà alla tv, diventando «il più bel cowboy del mondo» [6]. Da qui poi Leone, Siegel, l’uomo senza nome e Harry la carogna: l’anarchia, l’afflato poetico del ribelle, l’altro modo di fare cinema.       

Fino a prova contraria

C’è sempre un’altra verità, un’altra giustizia da quelle universalmente riconosciute, nei film di Clint: dalla negazione dell’ordine istituzionale di Callaghan sino all’apogeo relativista del dittico bellico Flags of Our Fathers/Letters from Iwo Jima; dal «maltrattamento dell’America» [7] de Lo straniero senza nome al cinismo critico ed unforgiven dei reduci in Gran Torino e Il corriere, passando per le caricature parodiche del cameratismo mascolino di Gunny. Infine, le corse contro il tempo per una verità (apparentemente) impossibile di Fino a prova contraria.

È il 1998, c’è un Clinton che si gode le ultimissime-caldissime-bagnatissime coccole under the table (Au revoir Monica! Adieu Paula!) ed un altro Clinton che, invece, ha ricevuto direttamente da Godard il premio César dell’Academie des Arts et Technicques du Cinéma. Ha, inoltre, letto un libro: Prima di mezzanotte di Andrew Klavan (True crime in originale). Gli piace, vuole adattarlo per lo schermo. Il californiano dagli occhi di ghiaccio viene da un’altra mezzanotte, quella nel giardino del bene e del male, nelle parole di John Cusack una sorta di «Via col vento alla mescalina». Midnight in the Garden of Good and Evil (1997) precede immediatamente Fino a prova contraria: tratti entrambi da libri, i due film condividono la figura del giornalista come protagonista della storia.

Ma se il giornalismo di Midnight finirà col nascondere la verità, quello di Steve Everett tenterà di svelarla. John Kelso, protagonista del film del ’97, era affabile, diligente, cronista dell’alta borghesia georgiana, probabilmente reazionario. Everett (Eastwood) un individualista esasperato, giornalista investigativo in lotta col potere, probabilmente anarchico. Aveva messo in mutande il sindaco di New York, sollevato una crociata per la scarcerazione di Mike Vargas perché i conti non gli tornavano (il condannato si rivelerà poi effettivamente colpevole) e, soprattutto, beveva.

Ma Steve adesso vive ad Oakland, i morti sono morti e, cosa più importante, è «sobrio come un ex alcolizzato». Ha l’occasione di redimersi, portando a termine il lavoro di una collega morta in un incidente: scrivere un articolo “umano” sul condannato a morte Frank Beechum (Isaiah Washington). Ad Everett, tuttavia, non è rimasto solo il vizio del fumo («moltissimi dipendenti protestano per il fumo passivo e moltissimi figli di puttana se ne fregano»), ma anche quello della sfiducia istituzionale. Per lui, Beechum è innocente. E allora perché fare il buon samaritano del quarto potere? Perché «guardare l’uomo sulla croce chiedendogli che tempo fa lassù» se le testimonianze non riescono a coincidere con i dati fattuali raccolti da Steve?

Fino a prova contraria, 25 anni dal film di Clint Eastwood

Certo, in passato aveva fallito come giornalista, e ora continua a farlo come marito e padre. La famiglia è un’istituzione e, in quanto tale, l’antieroe eastwoodiano non può che abitare il conflitto e la crisi che ogni istituzione porta dentro di sé come dato paradossale. Ma Clint ama fare film sugli uomini che falliscono (ed ecco che ritornano i caratteri postmoderni che negano l’infallibilità degli eroi classici) perché il fallimento è sinolo dell’umanità. L’etica eastwoodiana è quella dell’everyday man, dell’uomo qualunque che per circostanze fulminee e spesso casuali si carica sulle spalle il peso dell’altro, quindi della comunità, cadendo anche nell’errore. Nei film di Eastwood l’eroismo si nasconde sempre dove meno ce lo aspettiamo.

C’è qualcosa di profondamente cristiano nei ricami delle sue storie: il costante sacrificio, la lotta per il bene, la difesa degli emarginati e degli umili; ma certamente anche la colpa, il peccato, lo scetticismo, la punizione e l’espiazione. Everett combatte per la verità senza esigenze di ricompense e tornaconti, mosso da una pietà probabilmente inconscia, quindi vergine. La missione di salvezza si assume i rischi della rinnegazione e dell’abiura (famiglia, lavoro, Steve stesso), dunque del sacrificio del proprio bene per un bene altro, più alto, indefinibile. E la purezza di Everett risiede nella gratuità della sua azione. Figura cristica che, di fatto, rimarrà senza lavoro e senza fissa dimora.

Contemporaneamente, Eastwood resta assolutamente critico con la Chiesa in quanto istituzione, rigettando la retorica manichea: la figura del cappellano assomiglia più a quella di un demonio, di una serpe viscida, corruttrice, bugiarda; forza la remissione di un peccato inesistente, si abbandona al sadismo provocatorio, sventola in faccia a Beechum la propria autorità libera. Ne consegue, ancora una volta, la sfiducia che si fa diffidenza, spesso negazione, verso un centro di potere: elemento essenziale nell’(anti)eroismo del cinema di Eastwood. Né contiene l’ironia cinica, carattere frequente, canonico dei suoi personaggi: presa conoscenza dell’appartenenza di Beechum alla Chiesa della Rinascita, Steve dirà che «sono tutti cristiani rinati nel braccio della morte, c’è un alto tasso di natalità»; e gli scambi di battute istantanei sul dongiovannismo di Steve tra lui e l’editore Alan (James Woods) sembrano ricalcare il ping pong di boutade tra Cary Grant e Rosalind Russell in La signora del venerdì (in primis per l’evidente comunanza di temi legati a giornalismo, incompetenza giudiziaria e pena di morte).

Everett/Eastwood ricerca un’altra verità, accogliendo l’errore dell’individuo (il caso Vargas), della collettività (l’opinione pubblica contro Frank Beechum) e dell’istituzione (deficienza investigativa della polizia), proiettandosi in un orizzonte di caparbie certezze, difficili da sradicare. L’ossessione del tempo, primo ed ultimo giudice di Beechum (quindi di tutti noi), costringe il giornalista ad una corsa contro la morte, per salvare una vita. Una corsa contro una verità, per salvare la Verità.

Eppure, quello che ai nostri occhi di spettatori sembra svolgersi come realtà dei fatti, certamente non si esime dalla genesi del dubbio. Dice Bernard Benoliel: «Si sarebbe lontani dal capire Fino a prova contraria e il cinema di Eastwood se, in virtù del presunto finale aperto di questo film, si dovesse concludere che Steve Everett, il giornalista dell’Oakland Tribune, è arrivato in tempo a fermare l’esecuzione e che Frank Beechum è scampato alla morte. No, questa volta il condannato alla pena capitale non si è salvato ed Everett, malgrado la sua corsa contro il tempo, è arrivato un minuto troppo tardi, come era ormai troppo tardi per salvare Butch [qui Benoliel si riferisce al finale di Un mondo perfetto]. Niente e nessuno può impedire alle bobine del film di girare come le lancette di un orologio e alla storia di procedere dritta verso la sua fine programmata.» [8]

Fino a prova contraria rientra nel limbo cui ogni autore prolifico pare esser destinato, quello dei film minori, sia per motivi economici (il film fu un fiasco, incassando poco più di 16.000.000 di dollari a fronte di un budget di 55), sia per la tiepida accoglienza della critica. Si, probabilmente la penna di Everett non reggerebbe il confronto con il revolver di Josey Wales o il sax di Charlie Parker, e il suo essere outsider è comunque meno interessante rispetto alla meravigliosa dannazione di William Munny e ai roaring 2000s eastwoodiani (Mystic River, Million Dollar Baby, Richard Jewell…). Ma il discorso critico sull’auteur non può esaurirsi nella classifica, nella gerarchia (sempre inutili ed insoddisfacenti perché espressioni di una soggettività instabile). Deve, invece, trattarne l’opera come un corpo, attraverso un’analisi anatomica, un’indagine chirurgica. Approcciarsi alla filmografia di un regista come ad un complesso d’organi interdipendenti, ognuno con la propria funzione. Ecco che allora Fino a prova contraria, come tutti i film “minori” del cineasta, rivela la sua importanza là dove lega il proprio eroe alle espressioni morali degli altri personaggi di Clint, svelandone schemi alternativi, ma mantenendo la sua assoluta coerenza con l’universo eastwoodiano.  

Epilogo

Clint Eastwood ha raccontato il mito americano, diventando egli stesso mito. Manipola il tempo, prendendosi gioco dell’eterno fluire con la costante esibizione del suo fisico, del suo volto: manifesta fiero le intemperie carnali raccontando quelle di una nazione. Ordina la realtà come uno strumento meccanico, tenendo conto della sua complessità ed ingannando lo spettatore con la classicità dei regimi di sguardo. Glorifica la contraddizione e la moralità ambigua, costringendoci alla riflessione necessaria. Decostruisce l’eroismo restituendocene una visione ordinaria, quotidiana. Frammenta il discorso in significati plurimi, rendendo le ambivalenze veritative che dominano la nostra vita.  Nel cinema di Clint Eastwood, la verità non è mai una certezza. Nel cinema di Clint Eastwood, la verità è sempre un’altra.

BIBLIOGRAFIA

Mariuccia Ciotta, Roberto Silvestri, Spettri di Clint. L’ America del mito nell’opera di Eastwood, Baldini + Castoldi, 24 novembre 2023

Giulia Carluccio, Clint Eastwood, Marsilio, 4 novembre 2009

Bernard Benoliel, Clint Eastwood, Cahiers Du Cinema, 4 novembre 2010

NOTE

[1] Mariuccia Ciotta, Roberto Silvestri, Spettri di Clint. L’ America del mito nell’opera di Eastwood , Baldini + Castoldi, pp.164

[2] Giulia Carluccio, Clint Eastwood, Marsilio, pp.11-13

[3] Roberto Silvestri, I cancelli del cielo #25: SPETTRI DI CLINT (https://www.youtube.com/watch?v=O8b6ASTrAv0&t=238s), 40:50

[4] Vittorio Vidotto, Atlante del Ventesimo secolo. I documenti essenziali 1969-2000, Editori Laterza, 3 novembre 2011, pp.151

[5] Bernard Benoliel, Clint Eastwood, Cahiers Du Cinema, pp.39

[6] Ivi, pp.12

[7] Mariuccia Ciotta, Roberto Silvestri, Spettri di Clint. L’ America del mito nell’opera di Eastwood , Baldini + Castoldi, pp.72

[8] Bernard Benoliel, Clint Eastwood, Cahiers Du Cinema, pp.101

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