Per affrontare e per apprezzare al meglio il freddo sempre più incombente, DassCinemag propone un personalissimo di elenco film a tema. Le redattrici e i redattori hanno convogliato la tematica a proprio piacimento dando vita ad una lista variegata.
THE HATEFUL EIGHT (2015; Quentin Tarantino)
Un po’ di Carpenter, un po’ di Agatha Christie, un po’ di riflessione sociale sempre più attuale. E un bel po’ di sangue, altrimenti non si parlerebbe di Tarantino. In The Hateful Eight fa un freddo cane dentro e fuori l’emporio di Minnie, con la tempesta di neve messa al centro di tutto il film. La tempesta è il motore dell’azione, il nemico principale di una delle sceneggiature migliori di Tarantino. La tempesta è uno strumento formale, sfruttato per creare un forte contrasto cromatico “baviano” fra il bianco della neve e il sangue che inonderà l’emporio. La tempesta è anche una metafora di un’America violenta, divisa, chiusa, che vive il fuori come una costante minaccia, uno spazio da cui non far arrivare neanche uno spiffero. Quando tutto finisce, resta solo un conflitto crudele e senza redenzione. Come al solito, Tarantino non crea degli eroi, ma mette a nudo dei personaggi molto concreti con un gioco narrativo e citazionista sempre più sofisticato.
Di Paolo Moscatelli.
DIECI INVERNI (2009; Valerio Mieli)
Nel pieno della stagione più fredda dell’anno ha inizio una tormentatissima storia d’amore che si trascinerà per ben dieci anni, dandosi appuntamento casualmente sempre in inverno, quella tra Camilla (Isabella Ragonese) e Silvestro (Michele Riondino). Il regista Valerio Mieli dà vita al filo nascosto che da sempre lega due città come Venezia e Mosca e le colora dei sentimenti ardenti e confusi dei due protagonisti: il bianco invernale è solo esterno e il grande amore taciuto tra Camilla e Silvestro ha tonalità calde, dello stesso rosso dei capelli della ragazza. Entrambi all’inizio della loro carriera, Ragonese e Riondino abbracciano completamente i loro personaggi e trasmettono tutto il dramma di un amore irrealizzabile. Dal loro primo incontro su un traghetto veneziano lo spettatore assisterà alle mille separazioni che i due ragazzi affronteranno, alla costante ricerca del loro ricongiungimento. Tuttavia, Camilla e Silvestro sono troppo spesso su piani diversi ed è proprio nei loro pochi incontri – più di quando sono lontani – che ci si accorge di quanto non siano mai pronti l’uno per l’altro e che questa distanza non si colmerà mai.
Di Claudia Teti.
THE THING (1982; John Carpenter)
Lì dove l’uomo è minacciato, abita la bestia. Lì dove si cela la paura, riposa l’istinto. Lì dove tutto è dubbio, oscurità, gelo, vive la cosa. Quando l’Universal propose a Carpenter il remake di The Thing da un altro mondo di Howard Hawks, certamente non si aspettava la deriva esistenzialista a cui il film effettivamente approdò. Nella quotidianità antartica di un gruppo di ricercatori statunitensi bussa alla porta un nemico invisibile, una minaccia apparentemente inconsistente. L’animale che indossa ha il pelo soffice e pare quieto, eppure il diavolo agisce attraverso l’inganno. Prima seduce, placa, poi divide. Ed è proprio sulla divisione che Carpenter riflette, sull’individualismo esasperato su cui poggia l’indole dell’uomo. Non c’è fratellanza nella minaccia e se non c’è fratellanza non c’è umanità. La Cosa fa riemergere gli istinti più animaleschi di sopravvivenza, istinti che portano uomini di scienza (piene espressioni della razionalità) agli stadi primigeni dell’essere, quando tutto era diffidenza, pericolo, sopravvivenza. La Cosa si insidia e divide, deturpa corpo e ragione, si fa beffe dell’umano, della ragione, del positivismo. La Cosa invade l’anima sino alla totale glaciazione, quando l’umanità si cristallizza nelle isole marmate del sospetto e fuori non resta nulla, solo i 40 gradi sotto lo zero.
Di Mattia Croppo.
ALL THAT HEAVEN ALLOWS (1955; Douglas Sirk)
Ambientato in un periodo a cavallo tra l’autunno e l’inverno, quando il foliage inizia a lasciare spazio alla neve che, silenziosamente, prepara l’atmosfera perfetta per il Natale, All That Heaven Allows è un film in cui il freddo può essere percepito fin dall’inizio. Impreziosito da uno splendido Technicolor che avvolge la storia in un clima quasi favolistico, seguiamo la vita di Cary (Jane Wyman), madre rimasta vedova e incline alla solitudine, in quella upper class americana costruita solo sulle apparenze, dove la facciata conta più di ogni altra cosa. I pregiudizi del vicinato pettegolo e invadente iniziano a starle stretti soprattutto quando si innamora del giovane giardiniere (Rock Hudson), assunto dal marito quando era ancora in vita. Douglas Sirk ci regala uno splendido melodramma dove la differenza di classe, i retaggi culturali e l’emancipazione della figura femminile si intrecciano per dare vita a un film profondamente moderno nel raccontare l’ipocrisia borghese, ma anche perfettamente classico nel farci commuovere davanti a una splendida storia d’amore.
Di Giulia Mazzoneschi.
THE DAY AFTER TOMORROW (2004; Roland Emmerich)
«Si ha l’impressione di vivere un incubo terrificante ma non è un sogno, è la realtà». Così un inviato televisivo riassume gli eventi che si susseguono in The Day After Tomorrow. Gli avvertimenti di un paleo-climatologo sull’arrivo di una nuova ed imminente era glaciale vengono ignorati dalle più alte cariche politiche del globo fino a quando una tempesta dalle proporzioni globali getterà New York nell’occhio del ciclone. La fine dell’umanità sembra inevitabile, parliamo dell’apocalisse in cui ad avanzare non sono fiamme ma neve e ghiaccio. The Day After Tomorrow, dopo 20 anni esatti dalla sua uscita, ci pone davanti una brutale verità: noi esseri umani giochiamo ancora a braccio di ferro con la natura. Ciò che spaventa, oggi più di ieri, è che non ci troviamo davanti ad un’apocalisse zombie o un’invasione aliena, il cambiamento climatico può avere realmente effetti di tale portata. «La scritta Hollywood non esiste più, è stata spazzata via», una metafora meta-cinematografica che ci lancia il film: non abbiamo di fronte un semplice sci-fi apocalittico hollywoodiano colmo di lirismo pittorico ed iperboli catastrofiche. No, quello che ci troviamo davanti è un potenziale, e realistico, scenario di ciò che potrebbe accadere. Abbiamo sprecato tempo, ed ora siamo in ritardo di 20 anni sulla tabella di marcia.
Di Enrica Nardecchia.
THE SHINING (1980; Stanley Kubrick)
Jack Torrance e famiglia sprofondano nella follia nell’eterno film horror di Stanley Kubrick. Mentre l’Overlook Hotel affonda nella neve di un inverno impossibile, il più iconico personaggio di Jack Nicholson si abbandona alla follia e diventa uno specchio delle più profonde ossessioni umane, in un disperato tentativo di attaccamento al suo ego. Nel frattempo, il piccolo Danny vive esperienze paranormali che si collocano a fatica in uno spettro che spazia tra l’allucinazione infantile e la più alta ispirazione artistica. La storia del cinema continuerà a chiedersi, fino all’infinito, cosa sia davvero lo “shining” e nel mentre il cult horror per eccellenza continuerà a dimostrarsi un capolavoro nel creare tensione, dipingendo anime in pena al limite dell’esperienza umana.
Di Ludovico Cerrone.
I’M THINKING OF ENDING THINGS (2020; Charlie Kaufman)
Sommersi da una bufera di neve si finisce ad indagare il tempo e l’individuo. I’m Thinking of Ending Things qui è un trattato di filosofia. Charlie Kaufman realizza così il suo film più complesso, cercando di ricreare attraverso la poesia per immagini un sentimento di olismo universale, una sensazione trascendentale che suggerisce l’oltre. Tra i grandi cappotti , sciarpe e guanti i personaggi non sanno più chi sono e quando sono, i ricordi si confondono con il futuro, l’uno si confonde con l’altro. Colte citazioni che passano da David Foster Wallace e John Cassavetes arricchiscono i dialoghi collocando il film con coerenza nell’annovero della postmodernità, un gioco per fini intellettuali che non si ferma alla funzione ludica, bensì crea un legame tra intrattenimento e autorialità. Il film riesce a creare l’impossibile, un film cozy per cinefili cervellotici.
Di Alessandro Viani.
VERMIGLIO (2024; Maura Delpero)
Secondo lungometraggio di Maura Delpero, in Vermiglio ricorrono i temi della religione, il matrimonio, la sessualità femminile – tutt’altro che nuovi alla regista – e che in quest’opera ci vengono riconsegnati attraverso la scoperta della vita adulta e la ricerca di un proprio posto nel mondo da parte di tre sorelle, di età molto diverse, appartenenti ad una famiglia bergamasca, che deve fare i conti con i lasciti economici, sociale e culturali del dopoguerra. L’ambientazione di montagna, avvolgente e spigolosa, diventa simbolo di lontananza, d’isolamento – linguistico, geografico e psicologico – ma anche di maternità. Come lo spazio, anche il tempo assume la sua importanza: l’inverno è la stagione predominante. Il freddo pungente rallenta e modula il movimento dei corpi e lo spettatore è partecipe del gelo che si percepisce in ogni scelta stilistica: dagli indumenti pesanti indossati dai personaggi alle fontane dove scorre l’acqua gelida che arrossa le mani. Il modo in cui il tempo e lo spazio sono riconsegnati ha l’effetto di astrarre la vicenda tanto da farla sembrare appartenere ad un tempo molto lontano, difficile da ricordare, quasi come se non fosse mai esistito, ma che permane nella memoria.
Di Yvonne Mascioli.
HANA – BI (1997; Takeshi Kitano)
Il bianco candido della neve sul monte Fuji, il dolce scroscio delle onde che si infrangono sulla riva, il giallo brillante dei dipinti di Horibe. E ancora, il rosso vivo del sangue che zampilla, il frastuono di calci e pugni, bacchette da sushi usate come strumento al servizio di una brutalità estrema. Con Hana-bi, Takeshi Kitano è stato in grado, come pochi prima di lui, di tradurre in immagini il carattere ossimorico dell’esistenza umana, in un movimento oscillante tra l’esperienza del dolore a cui la vita ci sottopone e la contemplazione della bellezza della natura. Un lirismo, quello di Hana-bi, scevro di qualsiasi traccia di patetismo, che non cede alle lusinghe di una spettacolarizzazione della violenza. Il cinema di Kitano è, dunque, un’elegia dell’esistenza umana, un invito a saper scorgere nelle contraddizioni di questa la bellezza. Una bellezza che trascende da tempo e spazio, come quella di un fiore appassito, dell’amore di un uomo disperato per la moglie malata, o di un aquilone che si erge nel cielo, simbolo di una speranza che attende tutti noi.
Di Francesca Gentile.
GROUNDHOG DAY (1993; Harold Ramis)
È il 2 febbraio. Per il meteorologo Phil Connors (Bill Murray) lo rimane per una serie di giorni, tutti identici l’un l’altro. Costretto in quest’inspiegabile ripetizione, Phil attraversa un radicale mutamento di prospettiva. Mentre a Punxsutawney, in Pennsylvania, si festeggia il “Giorno della marmotta” (che rivelerebbe alla cittadinanza quanto ancora durerà l’inverno), Connors cerca una via di fuga dal loop. Dopo pochi tentativi vi si arrenderà inesorabilmente, prima per godere di una certa assenza di responsabilità, poi per evolvere in una persona migliore. Quella di Groundhog Day, commedia diretta da Harold Ramis e scritta assieme a Danny Rubin, è una visione in un primo momento frustrante – come rende bene l’immagine di Phil/Murray con le spalle intirizzite dal freddo nel mezzo della bufera che impedisce l’uscita da Punxsutawney – ma la frustrazione di cui si caricano spettatore e protagonista insieme è funzionale a far apprezzare ciò che si ha nel “qui ed ora”, che magari non può essere cambiato, eppure, certamente, cela preziose opportunità. Dunque, ci si lasci catturare dalla ritmicità che dalla scrittura investe regia e montaggio, dalla carismatica e tagliente interpretazione di Murray e da quella tenera e intelligente di una splendida Andie MacDowell.
Di Francesca Protano.
DEAD POETS SOCIETY (1989; Peter Weir)
Vermont, inverno 1959. Nel collegio maschile di Welton arriva un nuovo docente di letteratura: John Keating, interpretato da Robin Williams. Il nuovo professore, rivoluzionario e ribelle, costruisce le sue lezioni sovvertendo l’ordine di insegnamento tradizionale, suscitando così l’interesse dei suoi studenti. Indirizza i propri allievi, abituati ad un ambiente asettico, a coltivare i propri interessi, le proprie passioni, a contrastare il conformismo e la noiosità della vita. Keating si fa portatore della locuzione latina di Orazio “Carpe diem”, invitando i suoi studenti a cogliere il momento giusto e ad approfittare delle occasioni prima che sia troppo tardi, in quanto qualunque cosa accada si giunge inevitabilmente, prima o poi, alla morte. Fondamentale nelle sue lezioni è anche la passione per l’arte e quanto essa sia necessaria nella vita dell’uomo. I ragazzi del collegio impareranno a ribellarsi, ad affrontare la vita e a lottare per i loro sogni. Il film si rivela un inno all’anticonformismo e all’esaltazione dell’individualità, che trascina lo spettatore nei vicoli più bui della mente. I suggestivi paesaggi innevati e i meravigliosi costumi sono la degna cornice di questa impeccabile sceneggiatura.
Di Alessandra Merola.