Film Internazionali da Oscar: i consigli della redazione

copertina articolo oscar

In onore della nuova edizione degli Oscar, proponiamo una carrellata dei nostri titoli preferiti che, negli anni, hanno conquistato il premio come Miglior Film Internazionale.

INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO (1970; Elio Petri)

indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, recensione

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, a distanza di cinquantacinque anni dalla sua uscita in sala, ha preso le sembianze di un monito poetico. Nonostante siano intimamente legate al contesto politico dell’Italia degli anni Settanta, le immagini profondamente evocative, intessute di dialoghi ironici e realisti, di Elio Petri raccontano infatti qualcosa di sempre, tragicamente attuale. Il groviglio tra potere, repressione ed umiliazione che stringe la struttura dei “garanti di pace” del nostro Paese è presentato in tutta la sua natura sistemica, soprattutto attraverso la sua incarnazione nel protagonista senza nome, interpretato da Gian Maria Volonté, che dopo aver ucciso la sua amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan), sfida sfacciatamente il potere istituzionale della Questura di cui è appena diventato capo. Ma ogni tentativo di dimostrarsi colpevole è vano: alla spada della Giustizia non è permesso di certo cadere su chi, in virtù della sua carica, sfugge persino al giudizio umano. La promessa di portare ordine che egli vuole personificare si rivela in tutta la sua ambiguità e ipocrisia. Solo chi «ha la faccia da criminale», d’altronde, è adatto ad essere il recipiente dell’espiazione delle colpe che la macchina della società politica richiede per poter continuare a funzionare.

Di Cristina Esposto.

TODO SOBRE MI MADRE (1999; Pedro Almodóvar)

todo sobre mi madre, recensione

In Todo sobre mi madre la Spagna di fine anni ’90 è una realtà vivissima, caratterizzata dall’intreccio delle vite di numerose donne, a partire da Manuela (Cecilia Roth). È proprio lei la madre a cui si riferisce il titolo, che strizza l’occhio al capolavoro di Mankiewicz All About Eve, ripreso anche nella trama. Diversamente dalla pellicola ispiratrice però qui l’amicizia fra le donne protagoniste è vera ed è una delle parti più coinvolgenti del film. Infatti le vite delle protagoniste sembrano andare a rotoli, ma è proprio il rapporto l’una con l’altra a rappresentare uno spiraglio di luce attraverso il buio. Accanto a Manuela infatti ci sono Huma (Marisa Paredes), Agrado (Antonia San Juan) e Rosa (Penélope Cruz), tutte performance degne di nota. Il film, oltre ad eccellere per la trama coinvolgente, i personaggi irresistibili, la fotografia coloratissima, affronta in modo leggero ma cosciente degli importanti temi di attualità. Innanzitutto la protagonista, nonostante il titolo, non è ridotta al ruolo di madre, e anzi ci viene ricordato che il suo essere donna viene prima di tutto. Inoltre la cura con cui Almodóvar mette in scena le varie donne transessuali presenti nel film è prova della sua coscienza di genere ben avanti per i tempi.

Di Alessandro Giardetti.

OKURIBITO (2008; Yōjirō Takita)

departures, recensione

La vittoria di Okuribito di Takita Yōjirō come Miglior Film Internazionale agli Oscar del 2009 fu accolta con grande sorpresa, superando i favoritissimi La classe e Valzer con Bashir, entrambi molto apprezzati dalla critica. Il film giapponese ruota attorno al tema della morte, con un focus specifico sul rito della deposizione. Protagonista è Daigo, un violoncellista costretto a tornare nel suo paese natale e a reinventarsi dopo lo scioglimento dell’orchestra in cui suonava. Credendo di candidarsi per un’agenzia di viaggi, risponde a un annuncio di lavoro per scoprire solo in seguito che l’impiego riguarda in realtà le cerimonie funebri. I passaggi della preparazione dei defunti per il loro ultimo viaggio sono mostrati nel dettaglio attraverso la storia toccante di un uomo che ritrova sé stesso proprio grazie a questo lavoro inusuale (e spesso malvisto nel Paese del Sol Levante). Impreziosito anche dalla colonna sonora del maestro Joe Hisaishi, Okuribito affronta con grande delicatezza e umanità un tema complesso, spesso evitato anche nella società occidentale.

Di Giulia Mazzoneschi.

BABETTES GÆSTEBUD (1987; Gabriel Axel)

il pranzo di babette, recensione

Una voice over e una luce morbida ci trasportano dentro quella che sembra essere una fiaba. Babette (Stéphane Audran), dopo aver ricevuto una vincita alla lotteria, decide di preparare un pranzo per la sua comunità, la stessa comunità che quattordici anni prima l’ha accolta e protetta. Il cibo, restituito nel film con primi piani e dettagli ravvicinati che ne esaltano l’estetica, viene qui rappresentato con una profonda accezione di trasformazione, rito che esalta l’incontro con se stessi e con l’altro. Pranzare insieme diventa infatti un atto sacro di vicinanza, ascolto, un modo per riscoprirsi parte di una collettività, e la protagonista, con la sua meticolosità nella preparazione, compie un gesto di estremo amore e cura verso quella che da anni è la sua nuova famiglia. La regia di Gabriel Axel, delicata e mai invasiva, contribuisce alla realizzazione di un racconto intimo e raffinato, una favola abbellita dagli sconfinati paesaggi danesi, in cui dai toni tenui che invita a riscoprire la bellezza degli atti semplici.

Di Francesca Nobili.

MEDITERRANEO (1991; Gabriele Salvatores)

mediterraneo, recensione

La Seconda guerra mondiale è uno dei periodi più rappresentati nella storia del cinema. Mediterraneo, però, sceglie uno sguardo così unico da lasciare un segno indelebile anche in un panorama già ampiamente esplorato. La spensieratezza e i rapporti di amicizia, elementi ricorrenti nella Trilogia della fuga di Gabriele Salvatores, emergono anche qui, nel 1942, in un contesto in cui sembrerebbero fuori luogo. Ma più di ogni altra cosa, Mediterraneo racconta la delusione di non aver saputo ricostruire. La speranza nella fine della guerra svanisce, e con essa l’illusione che l’Italia potesse davvero diventare qualcosa di diverso. Ne nasce un sentimento di malinconia che non consola, ma in cui ci si perde—proprio come i soldati protagonisti—arrabbiandosi di fronte a una società che, forse, non è mai riuscita ad andare avanti. E quando persino un’isola sperduta non può più essere un porto sicuro, perché fagocitata dalle logiche del capitalismo, resta solo il dolore per ciò che non abbiamo mai potuto avere.

Di Alessandro Viani.

SAUL FIA (2015; László Nemes)

Saul Fia, recensione del film

Saul Fia è un film che nel 2015 ha vinto il premio Oscar per il miglior film internazionale; è ungherese e racconta il dramma dell’Olocausto, portando probabilmente alle estreme conseguenze la riflessione su una delle tragedie più grandi del secolo scorso. Se abbiamo – giustamente – molto lodato The Zone of Interest per aver sovvertito il canone del film sulla Shoah, Saul Fia fa un’operazione radicalmente opposta, dal punto di vista narrativo, registico e filosofico. Non tiene a distanza come il film di Glazer, ma ci immerge nell’orrore in modo sconcertante e abissale, costringendoci ad entrare nel cervello di un Sonderkommando – un ebreo costretto a collaborare con le SS all’interno di Auschwitz – attraverso una macchina da presa che lo tallona in piano sequenza. Auschwitz è l’annichilimento totale, il grado zero, la tabula rasa, e la mente del protagonista si ostina a cercare un senso a quel nulla, che ormai è diventata la sua esistenza: riuscire a trovare un rabbino in mezzo all’inferno, che possa celebrare il funerale di un bambino che sembra suo figlio. Uno dei film più divisivi e impegnativi sull’argomento.

Di Gabriele Mutatempo.

DAS LEBEN DER ANDEREN (2006;  Florian Henckel von Donnersmarck)

LE VITE DEGLI ALTRI, RECENSIONE

La 79ª edizione degli Oscar riserva la sua sorpresa più grande nella categoria del miglior internazionale. Il premio viene infatti inaspettatamente vinto dal primo lungometraggio del tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, Das Leben der Anderen. Berlino Est, 1984: Gerd Wiesler (Ulrich Mühe), inflessibile capitano della Stasi, riceve l’incarico di spiare l’autore teatrale Georg Dreyman (Sebastian Koch) e la sua compagna Christa-Maria (Martina Gedeck), sospettati di opposizione al governo della DDR. Ma la rigidità di Wiesler vacilla: l’uomo, affascinato dalla vita dei due, inizia ad affezionarsi alle loro vicende e alla loro capacità di vivere che probabilmente invidia, sino a compromettere la propria carriera. Nonostante un budget modesto, l’opera di von Donnersmarck non può che dirsi riuscita. Il regista tedesco dipinge un ritratto cupissimo della Berlino sovietica, un quadro opprimente impreziosito da un finale finissimo che scalda il cuore e, soprattutto, da un’interpretazione indimenticabile di Mühe che, realmente spiato dalla Stasi, dona al suo personaggio una struggente autenticità.

Di Nicolò Pierro.

IDA (2013; Paweł Pawlikowski)

Ida, la recensione

Ida di Paweł Pawlikowski è un’opera di straordinaria delicatezza, che riflette sul passato, sulla memoria e sulle scelte che definiscono chi siamo. Ambientato nella Polonia comunista degli anni ‘60, il film segue Anna (Agata Trzebuchowska), una giovane novizia orfana che, prima di prendere i voti, scopre una cruda verità: il suo vero nome è Ida Lebenstein e appartiene a una famiglia ebrea sterminata durante la guerra. Insieme a sua zia Wanda (Agata Kulesza), intraprende un road trip alla ricerca delle proprie radici, affrontando il peso di un passato irrisolto e le contraddizioni della propria esistenza. Girato in un suggestivo ed elegante bianco e nero in formato 4:3, Ida evoca l’estetica del cinema d’epoca e trasforma il minimalismo visivo in una forma di profonda introspezione. Pawlikowski evita qualsiasi retorica, affidandosi alla sottrazione e al silenzio per amplificare la carica emotiva della narrazione, rendendo ogni sguardo e ogni pausa carichi di significato. L’interpretazione sobria di Agata Trzebuchowska – ai tempi debuttante – e quella sublime di Agata Kulesza conferiscono intensità alla storia, evidenziando ulteriormente il contrasto tra le due donne. Con i suoi 80 minuti, Ida riesce a condensare un’esperienza emotiva e riflessiva che, pur nella sua brevitàlascia sicuramente un’impronta indelebile.

Di Gabriele Stefani.

AMARCORD (1973; Federico Fellini)

Amarcord, recensione

Sintetizzare una delle opere più incredibili ed evocative di Fellini in pochi paragrafi non è certo impresa facile. Si potrebbe parlare del titolo, di come una sola parola, originariamente un detto dialettale, sia diventata con il passare del tempo un genere a sé stante, una locuzione diventata parte integrante dello stesso popolo italiano oltre che fonte inesauribile di meravigliose immagini e racconti.  Questo perché tutti, a prescindere da sesso, provenienza o ceto sociale, sono stati bambini e ragazzi che tendono a ricordare nostalgicamente (forse fin troppo) momenti chiave della propria gioventù. Mescoliamo in un fiume burrascoso miti, racconti, suoni e odori che ci ricordano il periodo in cui guardavamo il mondo dal basso verso l’alto. Quando tutto ci sembrava così grande, che si trattasse della strada che portava al paese vicino o delle forme della bella tabaccaia di fronte casa. O forse si potrebbe dire, scendendo in una banale tautologia, che Amarcord è il cinema in tutta la sua potenza. Una pellicola che dopo più di mezzo secolo continua a incantare il nostro immaginario come fosse appena uscita. Uno dei motivi per cui ci si può sentire fieri di essere italiani.

Di Federico Sagheddu.

LA VITA È BELLA (1997; Roberto Benigni)

la vita è bella, recensione

«Questo è il sacrificio che mio padre ha fatto, questo è stato il suo regalo per me». Roberto Benigni scrive e dirige il premio Oscar La vita è bella, interpretando Guido, un padre che pur di proteggere il figlio Giosuè (Giorgio Cantarini) dalla brutalità del nazismo, trasforma la deportazione nei campi di concentramento in un gioco a premi per il piccolo. Il dolore coinvolge anche Dora (Nicoletta Braschi), il grande amore di Guido, madre del loro curioso e dolce bambino: la donna viene naturalmente divisa da entrambi, ma porta sempre nel suo cuore quel «Buongiorno principessa!» che il suo compagno le ha riservato fin dal primo appuntamento. Il gesto di Guido nei confronti del figlio racchiude una forza immane, portando avanti un mondo immaginario dove ogni mattina l’uomo traduce volontariamente in modo errato gli ordini dati nei campi, trasformandoli in sfide, gare e giochi dove il piccolo Giosuè si diverte, sentendosi parte di una squadra con il papà. La libertà del bambino coincide con la perdita del padre, dolore che il piccolo non percepisce davvero, correndo nel finale verso la madre con l’innocente convinzione di aver vinto il gioco. L’opera cinematografica viene ricordata come una storia di dolore e tenerezza in nome dell’amore che cerca di resistere sopra ogni cosa.

Di Sonia Spera.

NUOVO CINEMA PARADISO (1988; Giuseppe Tornatore)

nuovo cinema paradiso, recensione

Nel piccolo Cinema Paradiso ogni sera si stringe un paese intero. Totò (Salvatore Cascio) è solo un bambino, ma ha già capito che lì dentro c’è nascosto qualcosa di speciale: un fascio di luce così potente da asciugare tutte le lacrime, anche quelle rimaste incastrate sui volti dai tempi della guerra. La saletta parrocchiale diventa un punto fisso nel primo atto della storia di Totò, per il quale il fascino del cinema coincide con quello dell’apice della vita: la spensieratezza della fanciullezza e i sogni della gioventù. Tuttavia il burbero proiezionista Alfredo (Philippe Noiret) lo mette in guardia anche dei pericoli che quella luce magica può celare, perché c’è sempre il rischio che questa divampi in un fuoco distruttivo. Nella sua seconda pellicola Giuseppe Tornatore omaggia la sua infanzia e al contempo il mondo del cinema, in un’opera che racconta non solo del legame con la propria casa, ma anche del trauma del suo abbandono e dell’incapacità per un sognatore di affrontare le proprie illusioni. Ennio Morricone e suo figlio Andrea traducono in musica la nostalgia, siglando una delle colonne sonore più memorabili della storia del cinema.

Di Nickolas Stefani.

RASHŌMON (1950; Akira Kurosawa)

rashomon, recensione

In un articolo sui vincitori del premio Oscar al miglior film internazionale non si può non parlare di Rashōmon, una delle prime pellicole ad aver ottenuto tale premio nel 1952. Il film, diretto da Akira Kurosawa, esplora la natura soggettiva della verità e della percezione umana, mettendo in discussione la possibilità di una verità assoluta. La trama ruota attorno a un crimine avvenuto in una foresta, raccontato attraverso le diverse prospettive di quattro testimoni: un bandito, una donna, un samurai e un boscaiolo. Ogni racconto offre una versione unica e contraddittoria degli eventi, sfidando il pubblico a interrogarsi sulla verità. La fotografia in bianco e nero, con inquadrature che catturano l’essenza dei personaggi e la bellezza della natura circostante, crea un’atmosfera intensa e suggestiva, mentre l’uso innovativo della luce e delle ombre amplifica il dramma emotivo vissuto dai personaggi della storia. Capolavoro del cinema giapponese che ha rivoluzionato il modo di raccontare storie e che continua a influenzare registi e narratori di tutto il mondo, Rashōmon rimane un faro di innovazione e profondità, dimostrando che la ricerca della verità è un tema universale e senza tempo.

Di Chiara Cherubini.

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