È arrivato giugno e, in occasione del mese del Pride, proponiamo una carrellata di titoli con protagonista la comunità LGBTQIA+. La nostra vuole essere una lista di titoli sfaccettati che rispecchiano i nostri gusti e tentano di incontrare anche quelli di chi ci legge.
THE ADVENTURES OF PRICILLA, QUEEN OF THE DESERT (1994; Stephan Elliott)
The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert è un film che sembra quasi impossibile, come fosse arrivato per magia da una dimensione parallela. Stephan Elliott, allora regista australiano al suo secondo film, firma una commedia incredibile che dopo trent’anni riesce a raccontare la cultura queer come molti ancora non riescono a fare. Nessun buonismo o sconto. Una storia che non si accontenta di personaggi token e asettici, o di maldestro tentativo di rappresentazione fine a sé stessa. Tutti gli esseri umani non possono che rivedersi nelle avventure (e disavventure) delle tre queen protagoniste del film. Tra risate e drammi, Priscilla è la più classica delle metafore di viaggio, una storia universale che mette ognuno di noi di fronte a sé stesso, ai dubbi che ci limitano, all’idea che in fondo una vita per essere vissuta appieno non può che includere come valore universale la libertà. Di esprimersi, di lottare e soprattutto… di amare.
Di Federico Sagheddu.
HAPPY TOGETHER (1997; Wong Kar-Wai)
Fuori dalla caotica Hong Kong, Wong Kar-Wai spedisce i suoi attori in Argentina, alla ricerca delle Cascate dell’Iguazú. Già dalle prime inquadrature dirompe la potenza dell’acqua cosi come il fluire dell’amore tra i due protagonisti Ho Po-Wing (Leslie Cheung Kwok-Wing) e Lai Yiu-Fi (Tony Leung). Un amore tossico che coinvolge due persone agli antipodi. Da un lato Ho Po-Wing, libertino, egoista, finito nell’alienazione più totale e dall’altro Lai Yiu-Fi, anche lui solo, ma che con la spinta della nostalgia è pronto a redimersi. Un amore a fisarmonica, ciclico, ritmico, come il tango che ballano all’interno di una malridotta cucina. Sono insieme, i loro corpi si toccano, danzano al centro dell’inquadratura e si percepisce qualcosa di magico, poetico, siamo in uno spazio altro, quello dell’amore. E ciò che distingue Happy Together è che Wong Kar-Wai non pone il carattere omosessuale della coppia su di un piedistallo, come le isteriche tendenze odierne, anzi, lo rende un drappo fine che impreziosisce la storia di amore e odio tra due persone.
Di Riccardo Frascarelli.
BUT I’M A CHEERLEADER (1999; Jamie Babbit)
Il debutto della regista Jamie Babbit nel 1999 con una commedia satirica dai toni sgargianti e decisamente camp non solo ha conquistato un posto nel cinema queer trattando temi importanti e delicati con un tocco di ottimismo, ma è anche diventato, col passare degli anni, un vero e proprio cult, specialmente all’interno della comunità LGBTQ+. Megan (una giovanissima Natasha Lyonne) incarna la classica ragazza americana: bionda, cheerleader, fidanzata con un giocatore di football. Tuttavia, la sua famiglia e i suoi amici, allarmati da suoi atteggiamenti lesbici, la costringono a frequentare un campo di rieducazione, dove le verrà insegnato come essere eterosessuale. L’approccio stravagante e ironico agli stereotipi di genere e alle terapie di conversione lo hanno reso uno dei titoli più originali attraverso cui riflettere sull’omofobia e sulla confusione adolescenziale nella ricerca della propria identità. Una pellicola cara alla comunità non solo perché dona una trasposizione sincera dell’esperienza omosessuale, ma anche soprattutto per il finale dai toni decisamente positivi, che si discosta dalle note più drammatiche della maggior parte dei film queer.
Di Giulia Mazzoneschi.
BROKEBACK MOUNTAIN (2005; Ang Lee)
La rivisitazione contemporanea del genere western comincia da qui. Non è la prima volta che si tematizza l’omosessualità. Non è la prima volta che si mostrano dei cowboy gay. È la prima volta che lo si fa così. Per la prima volta i personaggi non devono solo difendersi dal mondo che non li accetta. Devono imparare ad accettare la loro identità. Grazie alle migliori interpretazioni di Jake Gyllenhaal e Heath Ledger, i protagonisti acquistano una profondità senza eguali. Scoprono come vivere la propria identità. Come fa il cinema americano, che scopre come vivere il genere western nel XXI secolo. Brokeback Mountain rappresenta un nuovo tipo di western in grado di raccontare comunque la cultura degli Stati Uniti in costante mutamento. Il film di Ang Lee lascia un’eredità importante nel cinema statunitense: film come Il potere del cane o Strange ways of life guardano qui per creare dei personaggi distanti dal canone classico, rappresentativi per un nuovo tipo di mascolinità. Serviva un punto di vista esterno per reinventare e rinvigorire un genere così fissato. E Lee ce l’ha fatta.
Di Paolo Moscatelli.
GOD’S OWN COUNTRY (2017; Francis Lee)
La tenuta quotidiana di una fattoria è sfiancante. È un compito che richiede dedizione, forza fisica e resistenza. Le giornate iniziano all’alba e terminano solo al calar del sole. Snervate è soprattutto l’inquietudine e il tormento che un fattore porta con sé durante le infinite giornate. Il regista inglese Francis Lee, nel film che ha sancito il suo esordio dietro la macchina da presa, ha trasposto in questa perfetta biografia drammatica la sua gioventù vissuta nelle terre desolate dello Yorkshire. Il regista affida la parte del suo alter ego Jonny Saxby a Josh O’Connor. Nella pellicola Lee mostra le sue radici, da figlio di contadini. La storia di un uomo, emarginato e solo, immerso nella natura che non conosce sentimenti, decide di scoprire il contatto umano relazionandosi con Gheorghe, un ragazzo affascinante (interpretato dall’attore Alec Secareanu), che lo aiuterà per l’annuale stagione degli agnelli. Quest’ultimo riuscirà ad abbattere quel muro di ombrosità che il protagonista si è costruito, permettendogli di scoprire la forza potente e universale del piacere.
Di Alessandra Merola.
MILK (2008; Gus Van Sant)
L’identità di genere è uno di quei grandi temi con cui, al giorno d’oggi, è impossibile non confrontarsi. Una tematica talmente delicata e divisiva da non poter essere trattata con superficialità. Quale modo migliore per affrontarla se non quello di raccontare le grandi personalità che, su queste tematiche, hanno lasciato la loro indissolubile impronta. Da questo punto di vista, la storia di Harvey Milk è una delle più rilevanti e Gus Van Sant, con questo film, è riuscito a renderla indimenticabile.
Da semplice assicuratore newyorkese a paladino dei diritti LGBT, una parabola evolutiva che è difficile da immaginare. Eppure Milk è proprio questo, un’avventura dopo l’altra, fatta di fallimenti, cadute ma anche di tante conquiste: dal nascondere la propria omosessualità fino a dichiararla, dalle prime assemblee in un piccolo negozio di fotografie fino all’ascesa politica, dalla violenta morte alla fiaccolata commemorativa. La vita di Harvey e il suo sacrificio, così, diventano una vera e propria rappresentazione metaforica delle lotte per i diritti delle minoranze e delle enormi difficoltà che esse comportano, oggi come allora.
Di Leone Bulgari.
MATTHIAS & MAXIME (2019; Xavier Dolan)
Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) e Maxime (Xavier Dolan) si conoscono da anni, sono cresciuti l’uno accanto all’altro, hanno visto le loro identità forgiarsi insieme. Quando una situazione li spinge a baciarsi qualcosa cambia: un’attrazione reciproca comincia a farsi largo e a mettere in discussione la loro amicizia. La scoperta di nuove domande riguardo alla propria sessualità li porta a dare spazio ai dubbi sulle loro intere esistenze. È possibile che un semplice bacio sia capace di destrutturare anni di certezze? È possibile cominciare a guardare con occhi completamente diversi una persona che si conosce da una vita? Dolan è abilissimo nel restituire allo spettatore la crisi esistenziale che sconvolge ma riaccende il rapporto tra i due protagonisti. La passione che li sorprende sembra così tangibile eppure sfuggente, familiare ma lacerante. È una passione rivelatrice che istintivamente porta a sottrarsi, a rifugiarsi nella certezza di ciò che si conosce. A testa bassa si segue il richiamo della paura, si torna alla normalità. Eppure, anche se stemperata, la scintilla li ha resi irrimediabilmente diversi.
Di Francesca Nobili.
MORTE A VENEZIA (1971; Luchino Visconti)
Visconti, come sempre ha saputo fare nei suoi melodrammi bellissimi e piacenti, ammanta le gracili spalle della morte del calore sensuale e torbido di una Venezia impressionistica. Venezia, con il suo contrasto di spiagge assolate e malinconici tramonti, è il luogo dove si consuma l’elegia di un artista incapace di abbandonarsi ai sensi ed aprirsi alla giovane ed efebica voluttà di un ragazzo ideale e senza difetti. Il pudico compositore Gustav, che si reca in cerca di ispirazione nel benessere della città lagunare, si ammalia del biondissimo ragazzo polacco Tadzio, che quasi sembra ricambiare i suoi sguardi incantati. Il loro, però, rimane un rapporto platonico, di distanza, che non riuscirà mai a condensarsi in una parola reciproca o in un contatto fisico, ma resterà sempre una questione di sguardo e di atto mancato. La silenziosa morte che aleggia nell’aria è un sintomo di questa incompiutezza, dell’astrattezza di un sentimento che non riesce mai a farsi carne ma che, al massimo, lambisce e sfiora le voglie dell’inetto protagonista, impotente nel rivelare ciò che prova al mondo.
Di Gabriele Mutatempo.
BLUE JEAN (2022; Georgia Oakley)
La paura di essere scoperta permea ogni angolo della ritirata e ripetitiva vita di Jean (Rosy McEwen). Casa, scuola, bar. Con automatismo, la protagonista scivola dall’uno all’altro di questi spazi, ossigenandosi i capelli, insegnando netball a ragazzine preadolescenti, bevendo birra e giocando a biliardo. Nel 1988 è in vigore nell’Inghilterra di Thatcher la Sezione 28, che minaccia il licenziamento dei docenti di cui venga dimostrata l’omosessualità. Jean è maniacalmente discreta, eppure, giorno e notte, ritrova l’anziana che abita dirimpetto a lei lì, immobile, a fissarla dalla finestra. Lungometraggio d’esordio di Georgia Oakley, Blue Jean prova la maturità della sua autrice e ha nella misura il suo punto di forza. McEwen è ipnotizzante. I suoi occhi glaciali costantemente spalancati, in attesa del primo segnale a cui scappare, ci trascinano nella tensione che inghiotte Jean. Concorre a questa immedesimazione l’ansiogena colonna sonora di Chris Roe, che si insinua solo laddove il pericolo è concreto. La pellicola, le note synthwave, la chosen family di donne lesbiche in cui le più agiate provvedono per le altre. Questi alcuni degli elementi che
fanno di Blue Jean un film autentico: non solo “sugli anni Ottanta”, ma anche “dagli anni Ottanta”.
Di Francesca Protano.
MINE VAGANTI (2010; Ferzan Ozpetek)
Accolti a braccia aperte nell’olimpo mediterraneo firmato Ferzan Ozpetek, terra dai toni caldi abitata da animi altrettanto bollenti, con Mine Vaganti il regista turco ci catapulta nel dramma familiare di Antonio (Alessandro Preziosi) e Tommaso (Riccardo Scamarcio), due fratelli entrambi omosessuali che decidono di fare il loro coming out alla loro famiglia conservatrice nello stesso momento. Solo il primo riuscirà nell’impresa a discapito del fratello, che dovrà farsi carico delle aspettative che la famiglia aveva per entrambi. Il riscatto del protagonista Tommaso, interpretato da uno splendido Riccardo Scamarcio, assume un tono tragicomico: per quanto infatti quest’ultimo si strugga per la sua condizione, imprigionato dalla propria famiglia in un campionario di stereotipi machisti, lo spettatore non può far a meno di ridere dei buffi personaggi che lo circondano e che insieme formano quel contorno comico necessario più che in ogni altro film di Ozpetek. Ciononostante l’azione sdrammatizzante di questa comicità tutta italiana non lede in alcun modo la delicatezza di un tema come quello del coming out in una famiglia conservatrice, che è affrontato con estrema eleganza e non risulta mai banalizzato o ridicolizzato.
Di Claudia Teti.
CALL ME BY YOUR NAME (2017; Luca Guadagnino)
«Chiamami col tuo nome, io ti chiamerò con il mio» così Elio (Timothèe Chalamet) ed Oliver (Armie Hammer) si legano in un rapporto colmo di amore e desiderio. Call me by your name, questo il titolo originale del film di Luca Guadagnino, non racconta una storia d’amore a lieto fine, eppure dietro l’amarezza riesce comunque a lasciare un retrogusto dolce, merito anche dell’atmosfera che la fotografia e la colonna sonora di Sufjan Stevens contribuiscono a costruire. È il sapore dell’estate a Crema, dell’amore vissuto di nascosto, della tenerezza di un padre che, non solo accetta l’omosessualità del figlio, ma si confessa con lui, gli rivela di aver vissuto qualcosa si simile e lo consola dopo la fine della sua prima storia. Del resto, chi meglio di un genitore può insegnare ad un giovane alle prese con la scoperta di sé stesso quanto la vita a volte possa essere strana, prendere delle pieghe difficili da comprendere e soprattutto che, per quanto male possa fare, «forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa. Che spreco!»
Di Beatrice Grandinetti.
CLOSE (2022; Lukas Dhont)
Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav de Waele) sono migliori amici fin dall’infanzia. Giocano, dormono insieme, corrono nell’idilliaca campagna in cui sono cresciuti, un luogo che sembra sospeso nel tempo. Un rapporto viscerale, che nessuno dei due ha interesse a definire, li lega indissolubilmente. Ma l’inizio delle scuole medie sarà destinato a cambiare per sempre la traiettoria delle loro vite. In quest’amicizia fino ad ora fatta di tenerezza, innocenza e spontaneità si insinuerà ben presto lo sguardo degli altri: i compagni di classe che, a differenza di Léo e Rémi, avvertono il bisogno di etichettare questo legame come qualcosa di più del semplice amore fraterno. E noi spettatori, così come loro, siamo inizialmente indotti ad interrogarci sulla vera natura dei sentimenti dei due, salvo poi renderci conto, in seguito ad un fatale colpo di scena, che non è questo ciò che conta davvero ed essere costretti a cambiare la nostra prospettiva sulle cose. Lukas Dhont, alla sua opera seconda con Close dopo Girl (2018), torna a riflettere sull’identità e sul bisogno, talvolta morboso, della nostra società di dover incasellare ciascun individuo nel sistema. La stessa società in cui mascolinità è sinonimo di rinuncia ai sentimenti, che sono ciò che ci rendono vivi per davvero.
Di Francesca Gentile.
TODO SOBRE MI MADRE (1999; Pedro Almodòvar)
Todo sobre mi madre è un film che i intreccia vite complesse, con protagoniste donne segnate dal dolore, ma che dimostrano saggezza e forza. Il film di Pedro Almodóvar gioca costantemente sui contrasti: sofferenza e allegria, religione e prostituzione, vita e morte. Il regista rappresenta la vita in tutto il suo dolore. Un sentimento che ci fa capire quanto amiamo o abbiamo amato. La protagonista, Manuela (Cecilia Roth), perde suo figlio in un incidente e decide di tornare nella sua città natale per incontrare il padre del ragazzo, che non ha mai saputo della sua esistenza. Durante il viaggio, Manuela incontra diverse donne, tra cui la sua vecchia amica Agrado, una prostituta transessuale che rappresenta l’unica verità in un mondo di maschere, perché «una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di sé stessa». Con questo film, Almodóvar ci scuote e sembra urlarci: vivete! Amate! Trasformatevi! Siate voi stessi! La vita sa toglierci tutto ma stupisce sempre. Vince sempre.
Di Carmine Faiella.
PARIS IS BURNING (1990; Jennie Livingston)
Esiste un filo che collega Liz Taylor e le madri delle casate della sottocultura afroamericana e latina come Pepper LaBeija, Dorian Corey, Angie Xtravaganza e Willi Ninja: è la fama. Certamente di un tipo diverso, ma che permette di affermare sé stessi come leader di una comunità e «diventare leggenda». La giovane regista Jennie Livingston presenta nel 1990 un documentario che è il frutto di ben sei anni di interviste svolte a loro ed altri protagonisti della cultura underground del ballroom newyorchese. Sempre dietro la camera, la posiziona lì dove i concorrenti gay e transessuali sono liberi dallo sguardo razzista e transfobico della cultura dominante, negli ambienti dove si sfidano a colpi di voguing o altri balli, sfoggiando i vestiti migliori, cercando di rimanere il più «autentici» possibile nel ruolo di drag che rappresentano. Questa non è che la parentesi meravigliosa che arricchisce le loro vite, ma, al di fuori, la maggior parte di loro è senzatetto o costretta a prostituirsi per mantenersi, con tutti i rischi che ne derivano, dall’AIDS fino agli assassinii. Paris is burning è un film che «parla del giro dei balli, dei gay che vi partecipano e di come la vita di ognuno li abbia spinti verso quel mondo» che gli garantisce l’illusione di essere delle star.
Di Luigi Parente.