Androide gigolò. Amante. Letale cecchino. Vampiro, ladro, eroe innamorato, marito tradito ed anti-eroe sospeso tra realtà biografica e finzione di celluloide. Ha lavorato con alcuni dei registi più importanti al mondo, da Anthony Minghella a Martin Scorsese, Steven Spielberg, Clint Eastwood, David Cronenberg, Terry Gilliam, Jean- Jacques Annaud, Wes Anderson, Sam Mendes, Mike Nichols, Kenneth Branagh, Wong Kar Wai, Guy Ritchie e davvero molti altri. Prolifico sul set e oscuro oggetto del desiderio da parte della stampa scandalistica e dei fan accaniti nonché due volte nominato ai prestigiosi Accademy Awards.
Stiamo parlando di Jude Law, inglese, classe 1972, sulle scene dal 1987 seguendo una formazione prettamente teatrale prima di approdare sul grande schermo nel biopic Wilde, nei panni dell’amante del celebre drammaturgo irlandese, il giovanissimo ed efebico Lord Alfred “Bosie” Douglas.
In questa decima edizione della Festa del Cinema di Roma l’annuncio della presenza di Law per uno degli incontri previsti ha fornito l’occasione per conversare sul ruolo dell’attore, sul rapporto che intercorre tra quest’ultimo e il concetto stesso di recitazione, il suo approccio sul set, con il personaggio, con l’industria cinematografica che permette la creazione dell’enorme macchina delle illusioni chiamata cinema.L’incontro è stato scandito da brevi sequenze estrapolate dai film interpretati dall’attore, in modo tale da ricreare una sorta di cronistoria- oltre ad un vago assaggio della carriera ricca e variegata di Law- attingendo ogni volta ad eventuali, nuovi, spunti di conversazione. AI- Intelligenza Artificiale, Gattaca, Anna Karenina, Ritorno a Cold Mountain, Closer, Grand Budapest Hotel, Sherlock Holmes, il Talento di Mr. Ripley, Era mio padre, Sleuth: dieci pezzi facili, dieci scene sulle quali riflettere tra aneddoti e riflessioni sul ruolo dell’attore che in fondo non fa altro che fornire un contributo alla “materia dei sogni” architettata e orchestrata dal regista, il vero demiurgo alle spalle di una pellicola.
Jude Law riconferma, attraverso le sue parole, quel talento sottile che contraddistingue gli attori del Regno Unito (siano essi inglesi, scozzesi, irlandesi o gallesi), interpreti dal raro talento in grado di muoversi, disinvolti, in bilico sul labile confine tra finzione e realtà, naturalismo e imitazione della vita stessa. Law stesso afferma che «quando ho iniziato da giovane, da adolescente io lavoravo d’istinto, usavo un po’ le mie sensazioni, piuttosto che seguire direttamente le indicazioni del regista»: non è il primo attore “made in UK” a parlare in questi termini facendosi portavoce di una personale variazione del “metodo”, basata su un equilibrio tra il tecnicismo tipico dell’impostazione teatrale e il naturalismo richiesto al cinema, un compromesso tra l’istinto- al quale affidarsi- e la preparazione tecnica che gli fa da bastone di sostegno, imbrigliando le sue intemperanze. Una sorta di “trucco” che permette a questi attori di avere, solitamente, un enorme successo ad Hollywood e nelle grandi produzioni; Law, ad esempio, ha lavorato soprattutto con registi europei, ma ha avuto anche esperienze americane che lo hanno portato ad una considerazione legata ai soldi: la presenza o meno di un ricco budget fa in effetti la differenza sul set.
Questa è l’unica distinzione, perché spesso ad un grande capitale corrispondono ritmi di lavoro forsennati e alte aspettative di partenza (un romanzo bestseller da cui partire per scrivere la sceneggiatura, oppure un autore di successo alle spalle, i.e) mentre su un set più piccolo, con meno risorse, spesso la molla che spinge ad andare avanti è la creativa, l’amore che lega tutti coloro che sono coinvolti nel processo produttivo della “creatura” che stanno realizzando. «Per girare una scena, bisogna solo trovare l’energia giusta, in fondo» commenta serafico, raccontando delle sue esperienze con registi come Spielberg o Mendes: il primo, che nonostante il peso massiccio di un blockbuster sulle spalle, gli ha lasciato spazio per creare il suo personaggio di gigolò robotico, e il secondo, uscito dal successo di American Beauty e non per questo intimorito dal passaggio dal mondo del teatro a quello del cinema. Con Mendes, sul set di Era mio padre hanno lavorato molto sulla fisicità: Tom Hanks, Paul Newman o Daniel Craig sono degli uomini dal forte impatto, dalle presenze ingombranti; per tale motivo Law ha lavorato sul personaggio del suo sicario scegliendo di dimagrire ed imbruttirsi (grazie al trucco e al parrucco) per sembrare il più possibile simile ad una lucertola, un letale animaletto in bassorilievo.
Quando si ritrova ad interpretare un personaggio storico o realmente esistito, che richiede quindi un’accuratezza maggiore, Law confessa di approcciarsi alla materia “incriminata” partendo, prima di tutto, dalla sceneggiatura (se è già disponibile, come accadde nel caso di Anna Karenina scritto da Tom Stoppard) successivamente se non lo conosce legge il romanzo, altrimenti comincia a riflettere sul suo personaggio, cercando di mantenere un equilibrio costante tra approfondimento psicologico- senza mai eccedere- e divertimento: la giusta misura è nel mezzo, non bisogna mai bollare un character in modo manicheo: in diverse situazioni gli è tornato proprio utile approcciarsi ad esso partendo dall’analisi del suo lato negativo, perfino quando si trattava di un eroe tradizionale. «Non bisogna mai esagerare nel lusso che uno, certe volte, si concede nell’esplorare alcuni elementi del proprio personaggio, dell’epoca, nel contesto in cui esso si muove. Sono tutti elementi che dal punto di vista del regista hanno un’importanza relativa per il risultato finale»- prosegue l’attore – «la parte più bella di questo mestiere è l’opportunità che ti dà di imparare qualcosa di un mondo nuovo, sconosciuto, di un periodo della storia, di un contesto a te completamente diverso. È un viaggio d’istruzione, di apprendimento».
Totale – o quasi – silenzio, invece, avvolge il nuovo progetto firmato da Paolo Sorrentino e del quale sarà protagonista: un prodotto di circa otto ore per la rete HBO, basato sulla storia- fittizia- di un Papa americano. Oltre a ribadire la profonda stima che nutre nei confronti di Sorrentino e della voglia che aveva, da molto tempo, di lavorare con lui, Law si sbottona un leggermente parlando… dello scomodo costume che indossa sul set fino a quattordici ore consecutive. Per fortuna che l’attore segue sempre la sua filosofia di vita: «Mi ritengo un uomo fortunatissimo ad avere questo mestiere. Devo sfruttare al massimo questa opportunità che mi viene data, e francamente se uno non si divertisse in una situazione del genere… beh, bisognerebbe cominciare ad interrogarsi seriamente sul motivo! Quale altro lavoro può darti un’occasione del genere?»