È in libreria da luglio il volume “Ritratti e autoritratti”, scritto da Felice Laudadio, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, e pubblicato da Rubbettino editore.
Il libro, arricchito da una prefazione di Walter Veltroni e da una postfazione di Alberto Crespi, è una raccolta di articoli e interviste pubblicate dall’autore tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sul quotidiano l’Unità. Le interviste venivano realizzate dal giovane Laudadio in modo molto particolare; non prendeva mai appunti, né registrava la conversazione, affidandosi esclusivamente alla sua memoria per la trascrizione del discorso.
Ne approfittiamo per rivolgere qualche domanda all’autore in merito a questa divertente tecnica professionale.
Nel riordinare questi editoriali e interviste che effetto le ha fatto a rileggersi e ad analizzare ex-novo il suo metodo di lavoro di quei tempi?
Rileggermi mi ha un po’ sorpreso, non solo perché non mi era mai capitato di ripescare questi miei vecchi articoli, ma anche perché mi sono ricordato della enorme fatica che facevo il giorno successivo per trascrivere la chiacchierata, che non erano interviste classiche, ma conversazioni che mai registravo o per le quali prendevo appunti. Tutte queste interviste si svolgevano sempre a pranzo o a cena, e nel rileggerle mi ha fatto piacere ritrovare alcune conversazioni rese in chiave di “racconto” con attrici come Monica Vitti, Claudia Cardinale, Lea Massari o Mariangela Melato.
Come mai la scelta di non registrare le conversazioni che svolgeva e di affidarsi esclusivamente alla sua memoria?
Era una tecnica che avevo sperimentato un paio di volte, nelle primissime interviste che avevo fatto, e che aveva funzionato! Questi articoli avevano avuto un certo successo, a quel tempo l’Unità (giornale per il quale ho cominciato a scrivere nel 1973) vendeva molto, era il secondo quotidiano italiano per tiratura.
C’è stato qualche personaggio che non è riuscito a pizzicare in quel periodo e che avrebbe voluto tanto intervistare?
In realtà la cosa è ancor più divertente. Mi ero recato a Fregene, dove abitava, per intervistare Franco Solinas, a mio avviso uno dei più grandi sceneggiatori del cinema italiano. L’ho incontrato più volte (a pranzo, come da prassi) in quelle giornate, parlavamo di tutto ma non si decideva mai a rilasciarmi l’intervista. Finché una sera mi sono presentato da Franco con il testo dell’intervista in cui avevo trascritto i nostri discorsi. Lo ha stracciato esclamando: “In quest’articolo parli troppo bene di me, ai lettori queste cose non interessano, non la pubblicherai mai!”. All’epoca si scriveva sui fogli tripli che avevano la “carta carbone”, e quindi una copia l’avevo conservata. Ma per l’appunto ero stato interdetto dalla pubblicazione, motivo per cui non l’ho mai data alle stampe, e dunque non l’ho inserita nemmeno nel libro (io non c’è l’ho neanche, ne ha una copia soltanto la figlia di Solinas, Francesca). Quando Franco è venuto a mancare mi sono inventato il Premio Solinas, proprio per ricordare questo grandissimo sceneggiatore. Con lo stesso metodo avrei voluto fare un’intervista a Francesco Rosi e a Gillo Pontecorvo, miei grandi amici. In realtà li ho intervistati entrambi, ma sempre in occasioni strettamente legate all’uscita di un loro film, e dunque non erano ritratti ma pezzi di cronaca, per cui ho deciso di non inserirle in questo libro.
Come veniva visto il suo metodo di lavoro a quei tempi nei corridoi de L’Unità?
Veramente io non ne parlavo, quindi non se ne sapeva nulla. Però ricevevo molti apprezzamenti, come quelli di Ugo Baduel (grande inviato e resocontista dei comizi di Enrico Berlinguer) che era uno dei miei più assidui lettori e che mi faceva moltissime osservazioni positive.
Le interviste più intriganti, da un punto di vista culturale, a mio avviso sono quelle fatte a Jurij Ljubimov, Carmelo Bene e Ugo Tognazzi. Mi piacerebbe tanto un suo ulteriore ricordo di questi tre personaggi da un punto di vista personale, umano…
Con Tognazzi ho avuto un rapporto soprattutto professionale, non così amichevoli come quelli con Volontè, Mastroianni, ecc… Però sono andato da lui tutte le volte che volevo, anche a sorpresa. Aveva una straordinaria capacità di raccontare, era un vero affabulatore di casi e storie culturali e cinematografiche: in questo accostabile soltanto ad Andrea Camilleri. Ljubimov, oltre ad essere un grandissimo regista teatrale, era un uomo molto simpatico. Sul piano personale aveva delle caratteristiche che lo rendevano simile a certi personaggi della letteratura russa. Era un tipo molto focoso, indipendente, polemico. Nelle nostre chiacchierate appariva sempre lucidissimo anche dopo aver bevuto un paio di bicchierini di vodka che contribuivano a far venir fuori liberamente una serie di considerazioni, di ricordi e di accuse contro il sistema sovietico. Era un dissidente del regime comunista, tanto che molti anni dopo gli hanno chiuso il Teatro alla Taganka di Mosca. Per Carmelo Bene posso dire la stessa cosa, era un genio irrequieto, pieno di idee, di fantasia, coltissimo e allo stesso molto umile. Con lui ho avuto un rapporto molto lungo, di interviste gliene ho fatte parecchie: tanto in privato era chiuso e timido quanto in teatro e in tv era scatenato e debordante. Ha avuto degli emulatori, ma nessuno di loro ha avuto la sua genialità.
Da dove nasce l’idea di ripubblicare questi suoi articoli?
Da un raffronto fra due crisi di sistema: quella pesantissima di carattere strutturale che colpì il cinema alla fine degli Settanta e quella tragica di carattere sanitario e di livello planetario che lo sta sconvolgendo oggi.