Dal regista giapponese Omori Tatsushi, noto in Giappone per la critica e il ribaltamento delle convenzioni sociali proposti dal suo film d’esordio The Wispering of the Gods, arriva al Far East Film Festival di Udine Every Day a Good Day una pellicola dal ritmo lento e misurato improntata verso la rivalutazione di quella che è una storica tradizione giapponese, il Cha No Yu (la via del tè), una pratica tutta femminile in cui ogni gesto deve essere eseguito con delicatezza e sicurezza. È proprio su queste due caratteristiche che Tatsushi impronta la sua regia, basata su movimenti di camera molto lenti e mai invasivi, ricca di dettagli, ogni singolo attimo viene infatti analizzato e caratterizzato da uno sguardo registico attento e ben pensato.
Tutto ciò è utilizzato per mettere in scena una storia semplice e di tutti i giorni, una vicenda comune che non ha nulla di straordinario, ma che proprio per questo raggiunge chi guarda con grande impatto emotivo, senza bisogno di alcuna spettacolarizzazione ma mettendo semplicemente sullo schermo momenti comuni vissuti attimo per attimo, momenti reali che la protagonista è costretta ad affrontare per poter procedere con la sua vita, e che il pubblico può comprendere appieno perché propri anche della sua esperienza.
Every Day a Good Day è la rappresentazione della dicotomia tra caos e armonia, all’interno della quale la protagonista deve destreggiarsi, il primo è rappresentato dalla confusione, dalla pressione e dagli eventi che circondano la ragazza, mentre la seconda è simboleggiata dalla cerimonia del tè, un punto fermo che le dà sicurezza durante il passare del tempo e il susseguirsi delle stagioni. La casa della sensei, uno degli ultimi ruoli della grande attrice Kiki Kirin, è il luogo dove avvengono le lezioni e rappresenta uno spazio sicuro, quasi zen, dove dimorano pace ed equilibrio, in grado di permettere alla giovane la possibilità di ritrovare se stessa dopo esser stata messa a dura prova dal lavoro, dal cuore o dalle altre pressioni costanti intorno a lei.
Un contrasto tra tradizione e società moderna che ricalca in alcuni momenti i passi dei grandi registi giapponesi del passato e soprattutto lo stile di Ozu Yasushiro, focalizzando come lui l’attenzione non sui momenti chiave dello sviluppo narrativo ma sui loro effetti, riprendendo le inquadrature ad altezza tatami e la spazialità a 360° tipica della sua cinematografia. Una rappresentazione dell’armonia molto cara al Giappone e perfettamente coerente con un cinema e una letteratura che nel corso degli anni si sono presi a cuore questo argomento, soprattutto in quella contemporaneità che vede costantemente sempre maggior distacco dalle tradizioni del passato, ma alle quali questo film cerca di guardare con occhi differenti, dandone nuova luce e importanza all’interno del contesto sociale moderno.