“Esterno notte (trailer) è il controcampo di Buongiorno, notte”. Con queste parole Marco Bellocchio ci ha accompagnato, in più riprese, alla visione del suo primo approccio alla serialità, presentato tra maggio e giugno in due parti sul grande schermo (grazie alla collaborazione di Lucky Red) e in arrivo in autunno su Rai Uno. Un controcampo che rompe con il passato rappresentato da Buongiorno, notte e con tutte quelle dinamiche che caratterizzavano il film, per aprirsi ad una narrazione dal respiro più ampio e al grande affresco storico. Stefano Bises (Il miracolo, The New Pope), Ludovica Rampoldi e Davide Serino (1992 e seguiti) hanno accompagnato il regista nella stesura della sceneggiatura di Esterno notte, restituendo al pubblico un’idea più che cristallina della concentrazione verticale e orizzontale che contraddistingue ogni singolo episodio.
La scintilla, ha raccontato Bellocchio nell’incontro tenutosi lo scorso anno alla Festa del Cinema di Roma, è scattata dalla visione di una foto ritraente Aldo Moro in spiaggia, in doppiopetto e in compagnia di sua figlia: un’immagine insolita per una personalità così autorevole della scena politica italiana; ma così interessante, così rivelatoria del “controcampo” della vita di un politico. Il primo di una moltitudine di “controcampi” disseminati nella serie. Lì dove in Buongiorno, notte ogni contatto con l’esterno avveniva sotto forma di richiamo al materiale d’archivio, in Esterno notte si concretizza in un corrispettivo filmico, fittizio. In un’analisi introspettiva di ogni singolo personaggio, in una messa in scena che giustappone la ricostruzione storica a flashback, sogni e incubi.
Esterno notte, proseguendo sul fil rouge del controcampo, si apre su una sequenza che riprende il finale del film del 2003: Moro (Fabrizio Gifuni) riposa su un letto d’ospedale, sopravvissuto alla prigionia, smagrito e con tanto di barba incolta. Un Moro agli antipodi di quello del film – il sorridente Roberto Herlitzka che si allontana dal covo dei brigatisti a piedi -, mosso da una rabbia primordiale, da un odio accecante e dalla volontà di lasciare le cariche ricoperte e la Democrazia Cristiana.
Sono sconcertanti i minuti che seguiranno. L’Italia di fine anni Settanta raccontata da Bellocchio non è un bel posto in cui stare; è un paese sull’orlo di una crisi di nervi, simboleggiato da scontri in piazza tra manifestanti e polizia e da scontri verbali in Parlamento (dove si apre discutendo del famoso “compromesso” – il coinvolgimento del Partito Comunista nel nuovo governo). Un coacervo di “anime perse”, per citare il film di Dino Risi, dove l’unico appello razionale esce proprio dalla bocca di Aldo Moro (“stiamo uniti”), colto in seguito dalla macchina da presa tra questi due scenari. Questa atmosfera di tensione fungerà da basso continuo al primo episodio, vera e propria masterclass di regia di Marco Bellocchio, che si concluderà pochi istanti dopo il sequestro del deputato della DC, il 16 marzo 1978. Ma dietro questo enorme fascino, contornato da qualche strizzata d’occhio al cinema e alla TV (il Pinocchio di Luigi Comencini e Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi), si cela ben altro.
Non a caso proprio dal secondo episodio, dedicato alla soggettiva di Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi, tra gli interpreti più incisivi della serie), il registro slitta su un tono decisamente più grottesco e (in)volontariamente comico. Proprio questo personaggio sfacciatamente teatrale – caratterizzato dalle macchie sulle sue mani – rappresenta, molto di più delle parole accusanti della prima scena di Esterno notte, l’intensità dell’accusa mossa da Bellocchio non solo verso i brigatisti ma verso gli allora attuali rappresentanti del governo.
L’astio comunicato dagli sguardi persi nel vuoto e dalle parole di Moro nell’episodio sei, o anche dai silenzi e dalle lacrime di Eleonora Moro (Margherita Buy) nell’episodio cinque, dalla telefonata notturna tra Papa Paolo VI (Toni Servillo) e Padre Curioni (Paolo Pierobon) sono altre crepe che la serie apre tra le pagine della Storia italiana; sequenze che ribadiscono ulteriormente quell’imbarazzante paura di un’organizzazione estremista e criminale che non vuole tirarsi indietro (e che forse non crede ai suoi intenti) e la stasi di una classe politica che non sa far altro che attendere. E il paese si disgrega ancora di più, tra vari richiami al fascismo e a una dilagante espansione dell’eroina.
Forse l’atto più rivoluzionario sarebbe stato liberare Moro, sciogliere definitivamente le Brigate Rosse (protagoniste di uno straniante quarto episodio) e ricominciare da capo in Parlamento, rifondare da zero il paese ammettendo di aver sbagliato. Ma né la politica né la guerra, potremmo dedurre, ammettono queste ritirate. E allora perché non attendere? Perché non giocare a fare gli americani? A intercettare i telefoni dei cittadini, a “trattare” e credere ad un insensato comunicato che suggerisce di cercare il corpo del deputato sul fondo del lago (ghiacciato) della Duchessa? Tanto prima o poi gli italiani si stancheranno di questo “dramma infinito”, e l’unico folle sarà colui che, semplicemente, non voleva morire.