C’è un grande retrogusto di rivalsa nella promessa che Emancipation (trailer) porta con sé. Non tanto, forse, per la storia che decide di raccontare, quanto per la sorte del suo protagonista, un Will Smith in cerca di ripulire il suo nome dopo l’onta che l’ha perseguitato nell’ultimo anno. Caduto nei bassifondi degli scomunicati, bollato come sommo peccatore dalla chiesa hollywoodiana, quello che ai bei tempi poteva essere il “principe” più amato della contea di Los Angeles è con tutta evidenza a caccia di redenzione con il suo nuovo film arrivato su Apple TV+.
Ci ha pensato Antoine Fuqua a vestire i panni del buon samaritano, cucendo sull’attore un ruolo che pare aderente alle sue misure. Una parte presa, per l’occasione, direttamente dai libri di storia americana: quella di Peter il fustigato e della terribile storia vera che ha marchiato la sua figura nell’immaginario collettivo. Una vicenda individuale, nel racconto di uno schiavo fuggito dal giogo, che si allarga ad essere testimonianza di una comunità da costruire, o meglio ricostruire (nel contesto degli Stati Uniti lacerati dalla Guerra di secessione).
Siamo nel 1863, data fondamentale nella storia degli Stati Uniti. Il 1° gennaio di quell’anno, infatti, un decreto dell’allora presidente Lincoln abolì ufficialmente la schiavitù su tutto il territorio federale. Una decisione che d’altra parte trovava un paese diviso da un conflitto armato, le cui profonde ragioni risiedevano proprio nel tema degli schiavi. Un cambiamento, di conseguenza, che trovò una sostanziale indifferenza negli stati sudisti (e tradizionalmente latifondisti). È per l’appunto in uno di questi stati, la Lousiana, che inizia la vicenda del nostro protagonista, deciso a conquistarsi la libertà fuggendo da una piantagione.
Ragioni di libertà si mescolano a motivi patriottici in Emancipation, che vede il personaggio di Will Smith in una fuga animata dal desiderio di arruolarsi nell’esercito dell’Unione. Ma quello che in partenza sembra un racconto di fede e forza d’animo assume presto le sembianze di una inesorabile caccia all’uomo, quella condotta dallo schiavista Fassel (uno spietato Ben Foster) nei confronti del tenace Peter. Un crudo inseguimento, tra le dense paludi della Lousiana, che costringe il protagonista a dar vuoto a tutte le energie della sua carne. È un corpo sfiancato e allo stesso tempo impiegabile, sostenuto da una ferrea volontà di autoaffermazione e dall’intensa interpretazione di Will Smith.
Nel mettere in scena una tale traiettoria d’azione il film ricorre a buona parte della sua durata (l’intero secondo atto), nonché esaurisce la sua spinta propulsiva. L’immagine dell’uomo braccato, di conseguenza, da metafora morale sbiadisce pian piano in un motivo ricorrente quasi da action movie ripetitivo, che per lunghi tratti rinfaccia allo spettatore un ciclico schema di fuga-ritrovamento-nascondiglio-fuga. La continua insistenza su un movimento simile sembra d’altra parte giovare al collegare la figura del personaggio a quella dell’attore. Perché a voler guardare oltre, essendo forse maliziosi, potremmo notare una certa (voluta) connessione – nonché ritorno d’immagine – nel personaggio che Will Smith ha scelto di interpretare: un uomo perseguitato, giudicato, castigato, sebbene per i più diversi e terribili motivi.
Capitolo a parte merita la fotografia, con tutta probabilità il comparto più curato del film. Il tre volte premio Oscar Robert Richardson ci trasporta in un mondo sbiadito, i cui colori lasciano posto ad una realtà arida e stinta, tendente al bianco e nero. Una scelta cromatica che per un verso restituisce l’umore di un racconto crudo e di un tempo storico infausto, allo stesso tempo aggiungendo profondità ai volti degli schiavi. Volti e corpi che spesso finiscono incorniciati in ricercate inquadrature paesaggistiche, scorci di una natura terribile e affascinante.
Con Emancipation Will Smith dà anima e corpo ad una prova estremamente sentita, carica e riuscita. In questo modo infonde alla figura storica di Peter il fustigato una volontà di rivalsa che sovrappone il personaggio all’attore, nella comune ricerca di autoaffermazione. Una sceneggiatura mal calibrata ne inficia però il buon fine, con un racconto fin troppo ripetitivo che alla lunga dissipa ogni climax emotivo.