Sono trascorsi già vent’anni dalla tragica giornata del 20 aprile 1999, quando due studenti della Columbine High School in Colorado entrarono armati fino ai denti nel loro istituto e trucidarono 13 persone. Eric Harris e Dylan Klebold tramortirono l’opinione pubblica attuando con lucida e meticolosa volontà il piano che qualche anno dopo, nel 2003, Gus Van Sant proporrà sul grande schermo con Elephant.
Io a quei tempi avevo da poco iniziato a camminare, ma ho assimilato la strage della Columbine come parte integrante del mio percorso di crescita. Perché sono sì passati due decenni, ma questa sanguinosa vicenda riecheggia ancora con insistenza trovando come amplificatori le troppe e analoghe tragedie che continuano a consumarsi oltreoceano. Il tema, purtroppo, è ancora caldo in terra statunitense, dove dall’attuale amministrazione arrivano messaggi ben poco incoraggianti e in controtendenza con i timidi tentativi della precedente gestione di contenere lo strapotere delle lobby delle armi.
Fortunatamente qui in Italia queste terribili storie si materializzano sullo schermo, filtrate e distanti, solo attraverso le narrazioni dei media che rimbalzano le informazioni delle emittenti americane. Il discorso che ruota attorno a una più permissiva e sdoganata “politica delle armi” però occupa una posizione nevralgica anche nel nostro panorama sociale. Certe tipologie di dichiarazioni e racconti (anche social) di esponenti politici vertono su posizioni che alimentano il timore di poter assistere, in modo collaterale, a tragedie come quelle della Columbine.
Ecco perché se ci capita di vedere Elephant nel 2019 non percepiamo la sua tematica aliena, bensì tremendamente odierna e in parte nostra. Il merito, in chiave artistica, è anche del regista di Louisville, che con la sua pellicola ha conquistato a Cannes la Palma d’oro e il premio per la miglior regia (per le quali assegnazioni combinate la giuria ha dovuto chiedere una deroga al regolamento).
Il lavoro di Van Sant cattura il sapore dell’universale nell’approcciare con indiscrezione, ma delicatamente, la quotidianità di gruppi di studenti che vivono le loro routine in una scuola che sappiamo poter essere la Columbine come non esserlo. Il suo sguardo vortica attorno ai soggetti della vicenda, esposti in una dimensione metafisica di tempo e spazio. A tratti sfiora un po’ golosamente le narrazioni che necessitano di scovare la scintilla scatenante, incapaci di accettare la lucida consapevolezza dell’atto. Il nostro occhio li segue, talvolta li affianca e molto più raramente li precede, manifestandosi non consapevole dell’apocalisse che si rivela oggetto finale della sua curiosità morbosa e inconscia. Le vite che vediamo intrecciarsi sullo schermo vengono spezzate senza pulsazioni, questa volta dietro l’angolo, dove non vogliamo arrivare.
Van Sant non scarica colpe, non crocifigge. D’altronde chi scaverà, a posteriori, per trovare una motivazione recondita, non manca mai. Lui ci dice che semplicemente è successo, lì, in quelle mura trasposte su schermo. Se poi a distanza di anni quelle mura e il sangue su di esse li percepiamo ancora così vividi, beh, quello sta a noi.