#Venezia81: El Jockey, la recensione del film di Luis Ortega

Luis Ortega – che nel 2018 aveva stupito Cannes con L’angelo del crimine, il più grande successo nella storia del cinema argentino – con El Jockey conferma a Venezia di non peccare di originalità, con un film dallo stile molto particolare, ma che convince decisamente meno di quanto aveva fatto intravedere in precedenza. È la storia di Remo, eccentrico fantino perennemente allucinato, e dell’amata Abril, anche lei fantina ma più seria del compagno, in fuga dalla criminalità organizzata delle corse di cavalli, dopo un incidente in una gara.

Ortega costruisce un mondo fin da subito grottesco, con personaggi sopra le righe e un tono vagamente surreale: i primi minuti la sequela di situazioni assurde è divertente, anche perché coglie piuttosto alla sprovvista lo spettatore. Con il passare del tempo, però, la ripetizione insistita di questa quirkyness oltre che pedante diventa seriamente disorientante, finché si finisce ad assistere a una narrazione schizzata che perde completamente una rotta di senso.

Si balla, si balla tanto, si balla a caso, ma già succedeva in L’angelo del crimine: in quel caso, Ortega bilanciava una voglia di leggerezza un po’ infantile con una base psicologica davvero interessante, portando avanti con più chiarezza – seppur con alcuni problemi anche lì – una pluralità di discorsi in modo unico e intelligente, dalla scoperta trasognata e ambigua della sessualità all’ossessione perversa per l’apparenza da parte dei mass media. Una cifra così brillante manca a El Jockey, o meglio, ce n’è talmente troppa che straborda e non ne resta neanche la parvenza, uccisa dalla smania inutile di aggirare in continuazione le aspettative dello spettatore. A forza di ostentare la propria stramberia, con un’accozzaglia bulimica di idee, da oggetto curioso e intrigante si trasforma in un viaggio esagerato e folle difficile da digerire.

Si balla, dicevamo. Perché El Jockey è commedia, in primis: il comunque bravissimo protagonista Nahuel Pérez Biscayart è mattatore bizzarro, drogato e taciturno, poi transessuale chiacchierone, poi di nuovo muto; con quegli occhi enormi incavati in un volto tutto sommato minuto, quelle gag tutte fisiche, zero parole, un portamento slapstick alla Buster Keaton, è spirito libero in movimento. E quindi balla, perché il film è puro gioco, divertissement di un regista che decide di fare come vuole semplicemente per stupire, e quindi dirotta e irrigidisce costantemente l’attenzione del pubblico. Armi, alcool, droga per cavalli, golden shower, ad un certo punto questo gioco non fa più ridere e si diverte solo chi lo dirige, che accetta di farsi bastare un’urticante provocazione in forma di storia sgangherata e pseudo geniale. Un vero peccato.

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