«Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre.» Con questi versetti della Genesi si apre l’ultima pellicola del regista cileno Pablo Larraín, proiettata in anteprima italiana nell’ambito della decima edizione della Festa del Cinema di Roma, a chiudere la retrospettiva dedicata al cineasta. Il film racconta la storia di quattro sacerdoti che vivono, o meglio, sopravvivono, rinchiusi in una casa di un piccolo paesino sulla costa cilena. Sorvegliati da una suora-carceriera dall’ambiguo trascorso, sono costretti a una vita di rinunce dalla Chiesa, che ha istituito questa comunità con l’intento di far espiare loro un passato di pedofilia e omosessualità. El Club, sviluppandosi quasi come un thriller, intriso di tensione, incertezze e crude rivelazioni, parla senza veli di desideri repressi, della sottile linea che divide ciò che si è fatto e ciò che si sarebbe dovuto fare. Un percorso che si snoda tra le contraddizioni proprie dell’essere umani e, come tali, animali, tra la pulsione e la vergogna per quello che si è. La maestria di Larraín risiede nel riuscire a tradurre visivamente questo torbido limbo emotivo: a una fotografia poco satura si aggiungono i primi piani fuori fuoco dei preti mentre confessano le proprie colpe. Sospesi e spaesati come i personaggi che interpretano, gli attori hanno girato il film senza conoscere la sceneggiatura, che, come ha dichiarato Larraìn durante l’incontro che ha preceduto la proiezione, si è formata in gran parte sul set: «Abbiamo effettuato le riprese del film in due settimane e mezzo. Come ho fatto per altre pellicole, decido solo alcuni punti e immagino delle”scene madre” che tuttavia nascono durante le riprese vere e proprie. Penso che la sceneggiatura non debba essere definitiva e che il film vero e proprio si formi in fase di montaggio.»
El club prende lentamente forma muovendosi tra le disturbanti verità raccontate dagli uomini di Chiesa e i loro volti, visi dai lineamenti irregolari, come quelli di Antonia Zegers e Alfedro Castro, attori che già avevano collaborato con il regista, interpretando personaggi che, per scelta o per caso, vivono ai limiti della società. «Gli uomini e le donne che descrivo hanno spesso una storia precedente a quella narrata nei film che nessuno conosce- aggiunge Larraín parlando della sua filmografia- Sono emarginati, dimenticati dagli altri. Racconto lo spazio politico che li circonda e nel quale si muovono, cercando in qualche modo di contrastarlo, senza essere definibili. I miei personaggi risultano alla fine essere vittime di questo stesso contesto.»
Sono i loro sguardi e i loro silenzi ad essere i veri protagonisti del film, intessuto di non detto e di contraddizioni che spingono il pubblico a ragionare, a costruire una personale visione degli avvenimenti, guidato dalla mano di Larraín, che riesce a fare un potente e critico cinema politico senza risultare didascalico. «Trovo irritanti le pellicole che vogliono per forza trasmettere un messaggio. Fare cinema è una cosa diversa. La macchina da presa non deve chiedere perdono né scusa. Il cineasta è come un bambino con una bomba in mano che può esplodere da un momento all’altro in faccia a chiunque e faccio cinema con l’intento di mettere in discussione l’intelligenza del pubblico. Ciò che resta aperto è più affascinante.»
Così El club lascia che siano le immagini a parlare, con una fisica e grezza forza poetica propria della pellicola.
Albe e tramonti sono gli sfondi che accompagnano per quasi tutto il film le vicende dei protagonisti, come se Larraín volesse ricordarci che lo spazio proprio dell’essere uomo, dell’esserci, non è la luce, né le tenebre, non il giorno, né la notte, ma una indefinibile e breve zona di transizione.