In un campo estivo ormai popolato unicamente dal fantasma del ricordo di oscenità compiute, un luogo caduto in disgrazia a causa della malvagità umana, inizia l’inquietante vicenda di una serie di omicidi per mano di un… mostro? Sleepaway Camp, un film horror del 1983, diretto da Robert Hiltzik, merita una revisione in termini contemporanei proprio per la vena progressista che racchiude, o, al contrario, per il timore generato da tale progressismo e che vuole così esprimere.
Non essendo il film molto conosciuto in Italia, è necessario ripercorrerne la trama, seppur brevemente (e, mi dispiace, con futuri spoiler): Angela (Felissa Rose) è una bambina estremamente timida e taciturna, costretta ad andare al campeggio estivo, insieme al cugino Ricky (Jonathan Tiersten), da una zia/madre (Desiree Gould) che potremmo definire peculiare. Dal momento in cui arrivano nel campo Arawak cominciano gli omicidi: chiunque osi disturbare la bambina perisce in malo modo. Capire che il killer sia estremamente giovane non è difficile (le soggettive dell’omicida ci mostrano subito una mano infantile) e le scommesse si pongono per tutto il tempo su Angela e su Ricky. La mancanza di una costruzione di suspense adeguata è però ripagata dal plot twist finale.
Prima di affrontare il discorso sul film, bisogna fare una premessa sul genere horror e soprattutto sul sottogenere di cui fa parte questo in particolare, lo slasher. È proprio in questa categoria che Marco Greganti pone la pellicola: un gruppo di ragazzi (qui più giovani della media) riconducibili ad una certa tipologia umana (diciamo archetipica), affronta un viaggio che tendenzialmente non prevede un ritorno, se non, talvolta, per una persona solamente, la più virtuosa: la final girl o il final boy[1]. Ovviamente, a mantenere le redini della storia sarà il mostro, il killer, il pazzo omicida, dotato di un’arma detta “bianca” in quanto simboleggiante altro, diciamo una certa mancanza di richiamo freudiano. Che sia un’ascia, un coltello, una motosega o degli artigli scintillanti, gole saranno sgozzate e interiora ribaltate, apparentemente senza un perché. In preda ad una furia cieca il necessario bodycount potrà raggiungere cifre considerevoli.
Il perché è però ben manifesto, tanto da farci (qualche volta) patteggiare per il villain della storia, nonostante le atrocità che commetterà: infatti il cattivo è a sua volta sopravvissuto ad un trauma, oppure semplicemente partiva da una condizione psicologica non proprio stabile che è sfociata in catastrofe. Quello del trauma è il caso di Sleepaway Camp e qui arriviamo a ciò che agli occhi contemporanei si rivela progressista, ma che forse negli anni ’80 non poteva godere di questa accezione. Angela e il fratello sono figli di una coppia omosessuale (e si può assicurare con certezza che il trauma non è lì): per un tragico incidente in barca uno dei due papà morirà insieme al fratello di Angela, che verrà data in custodia alla zia Martha (anche se non sarebbe così sbagliato dire “data in pasto”) e non ci è concesso sapere cosa è accaduto all’altro genitore. Ma è davvero andata così?
Ciò che scopriamo alla fine del film è sconcertante ed ha un retrogusto di cinema horror italiano anni ’70 (come si può non pensare a La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati?): Angela in realtà è Angelo (per gli anni ’80, per gli anni ’20 del 2000 forse sarebbe più corretto dire Angelə?) e invece che essere la final girl, è l’assassina. La zia, in un moto freudiano (anzi, sociale) da “è sempre colpa della mamma”, decide di non volere un altro maschietto e impone il cambio di sesso a Peter, ovvero Angela. Certo, non un cambio di sesso dato da un’operazione, ma di costruzione sociale. D’altronde le questioni di genere sono base fondamentale del cinema horror (in particolare dello slasher), questo perché tutto ciò che non viene compreso dall’umana mente se prima finiva in un mito, ora finisce nell’horror (letterario e/o cinematografico).
Perché sono alla base dell’horror? I primi studi gender compaiono in campo accademico proprio alla fine degli anni ’70[2], negli Stati Uniti, a partire dallo studio del 1975 di Gayle Rubin dove è introdotto il termine “gender” ed il suo significato[3]. Non è la prima volta in cui il cinema ha una reazione simile: all’inzio degli anni ’40 le prime pubblicazioni di studi psicanalitici portano alla nascita della femme fatale, che altro non è se non la versione horror del concetto di donna-angelo perpetrato dalla società patriarcale, tutta devota ai vizi anziché alle virtù. Con i gender studies nasce lo slasher: non è un caso che questo sottogenere entri in crisi proprio negli anni ’90, periodo in cui l’”ambiguità” sessuale comincia a perdere la sua accezione negativa. Certamente, è riduttivo limitare lo slasher agli anni ’70 quando siamo stati graziati dall’esistenza di Psycho, ma questo è solo una prova del fatto che certi timori sono radicati nel DNA umano e sono, quindi, archetipici (v. Greganti).
Sleepaway Camp arriva in un momento storico in cui questi studi stabiliscono che « il genere è […] un costrutto sociale che denuncia la non-naturalità delle differenze tra i sessi e rivendica il ruolo centrale della cultura nei processi di socializzazione e di apprendimento della mascolinità e della femminilità»[4]: quando la zia Martha impone il genere femminile a Peter, manifesta una tendenza sociale alla costruzione di qualcosa che è pura imposizione umana. Questa violazione del sé di cui Peter si ritrova vittima esplode, ovviamente, in età puberale: la pubertà è infatti uno dei momenti più traumatici nella vita dell’individuo e quindi il prediletto dello slasher. Lo sviluppo sessuale è anche lo sviluppo di uno dei maggiori tabù della società occidentale, che quando si carica di ambiguità diventa luogo favorito del represso (e della sua riemersione).
L’ambiguità è il pane quotidiano dell’horror: il mostro stesso, in quanto non pienamente formato sul piano fisico, poiché il suo sviluppo sessuale viene bloccato, diventa altro; un essere sovra-umano, la cui sessualità si sposta su un livello di irrefrenabile violenza (contro sia uomini che donne, mostrando in un certo senso una tendenza bisessuale), espletazione di un “appetito” che non trova sfogo in altro modo. Angela è duplice vittima: non solo deve affrontare la pubertà, ma deve affrontarne una non sua, poiché le è imposto di vivere secondo i canoni sociali della femminilità. Il suo orientamento sessuale è confuso dall’essere ora una femmina e dover quindi provare attrazione per i maschi, quando in realtà le inquadrature che vedono in primissimo piano il suo volto fissato sulle ragazze con cui condivide la cabina, in uno sguardo che più che un gaze è proprio uno stare, suggeriscono piuttosto esplicitamente ben altro. Non è infatti un caso che la sua prima vittima femminile, Meg (Kathrine Kamhi), muoia proprio come morì Marion Crane in Psycho, accoltellata sotto la doccia.
Quindi, perché paura o monito? Negli anni ’80, l’essere figli di una coppia omosessuale o un’azione come quella di zia Martha potrebbero essere associati alla visione di un’educazione al gender new age, per così dire, senza alcuna imposizione sociale e quindi da temere. Il nuovo e l’ignoto che generano il mostruoso: infatti, protagonisti della storia non sono gli adolescenti, ma i bambini, cosa che rende la questione ancora più terrificante in termini di “futuro della società”; nel 2021, momento storico in cui l’importanza dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale prevalgono nella lotta contro il sistema patriarcale, il finale del film si può leggere come un monito, una specie di “guardate cosa succede se si reprime la natura di una persona”.
Pur con il suo stile decisamente superato, probabilmente (se mi si passa l’espressione) un po’ trash già negli anni ’80, Sleepaway Camp è un’origin story che esplora come e perchè i Jason e i Michael del mondo diventano quello che sono: il film continua ad essere sede di importanti riflessioni. Ma una cosa è certa: le persone con cui Angela ha a che fare quasi giustificano le coltellate.
Riferimenti bibliografici:
[1] M. Greganti, Slasher. Il genere, gli archetipi e le strutture, NPE, Eboli 2017.
[2] Lisa El Ghaoui, Filippo Fonio, Introduzione, in «Cahiers d’études italiannes», 16, 2013, pp. 5.
[3] Citata in: Irene Biemmi, Di che gender stiamo parlando?, in «Andersen», 2 maggio 2016, https://www.andersen.it/di-che-gender-stiamo-parlando/ (ultima consultazione 22 luglio 2021).
[4] Ibidem.