Mai giudicare un libro dalla copertina. O almeno, bisogna almeno arrivare a leggere la prima pagina. Probabilmente non esiste definizione più azzeccata per la nuova serie Dostoevskji, (trailer) debutto televisivo dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Presentato alla 74esima edizione della Berlinale e in arrivo su Sky in autunno, è un equilibrio tra il noir, il thriller, con inaspettate e inquietanti sfumature horror (ma ad un certo punto c’è Francesca Michielin).
L’inizio è spiazzante. Enzo Vitello (Filippo Timi), poliziotto, ha deciso di suicidarsi. Ha preparato tutto, con cura: le medicine cominciano a fare effetto, la lettera d’addio è sul tavolo, il silenzio sembra avvolgere gli ultimi attimi di luce in una vita che vede solo più buio. Poi una telefonata cambia tutto, la vita riparte: inizia la caccia a Dostoevskji, killer che lascia accanto alle proprie vittime lunghe lettere in cui descrive gli attimi precedenti alla morte.
I fratelli D’Innocenzo costruiscono un nuovo viaggio dantesco attorno ad Enzo, che girovaga in uno spazio indefinito, disumano, privo di connotati, per cui ad ogni passo si scava sempre più alla ricerca del male, puro come l’atto di decidere la sorte di qualcun altro. A fare da Beatrice è la figlia Ambra (interpretata da Carlotta Gamba, già vista nei panni della figura angelica per eccellenza in Dante di Pupi Avati), gli grida addosso per mostrargli una soluzione diversa, prova a salvare se stessa da un crudele abbandono e dalla prospettiva di un’esistenza segnata dalla dipendenza. È una Beatrice affamata d’amore, di vita, che il padre cerca negli omicidi, che il killer commette così da “guarirvi da questa assurda malattia di vivere”.
La storia traccia un mondo decadente, abitato da corpi che non hanno più nulla da perdere. Non si scontrano, procedono su rette parallele incuranti gli uni degli altri. L’attenzione della macchina da presa si concentra sui volti, quasi a non volerseli dimenticare. Caratterizzano una società vuota, che non crede più a nulla, rappresentata da istituzioni che non hanno più alcun potere, che non riescono a fornire delle spiegazioni e rimangono, chiuse nei loro uffici, in attesa di un’illuminazione.
L’esistenza sembra avere confini troppo sbiaditi, quasi una proiezione della mente, che la fotografia decide di rendere girando l’intera opera in 16 mm. La vita e la morte ruotano attorno allo stesso centro, si aggrappano alla parola, priva di significato, ma capace di rimbombare nelle menti di ogni abitante di questa landa desolata che ricorda le ambientazioni nordiche. Non esiste rumore, se non lo sparo, visto come una sorta di montaliana rete sul male.
Dostoevskji racconta soprattutto un padre, pieno di sensi di colpa. Non riesce a trovare le parole per stare accanto alla figlia, negli occhi la tenerezza, tra le mani l’incapacità di trovare un posto nella sua vita. I loro discorsi sono vuoti, una cantilena in cui non si sa fino a che punto spingersi per evitare che l’altro crolli, in mille pezzi, di fronte all’inadeguatezza. Filippo Timi incarna il conflitto della rappresentazione: è un attore muscolare, che regala ad Enzo tutta la sua fragilità, racchiusa in micro movimenti quasi ossessivi, che contrastano con la timbrica della voce, pulita, ferma, impostata. La paradossale freddezza che di solito si attribuisce ai serial killer, lo specchio di una solitudine alimentata dall’incapacità collettiva di stare al mondo.
I D’Innocenzo non perdono il loro tratto, non si snaturano per adattarsi al mezzo più popolare: propongono una riflessione sull’incomunicabilità dei nostri tempi, sull’algida umanità, giocano con gli stereotipi di genere, rafforzando la propria firma ed autorialità. Forse non siamo pronti a vederci rappresentati nella nostra più brutale bestialità. Forse lo spazio dell’esperienza irripetibile della sala cinematografica non è adatto per una verità da prendere con calma, a piccole dosi, circondati dai propri punti fermi di comfort.