Malessere, debolezze, sensi di colpa. Il cinema con Dopo il matrimonio (qui il trailer) si fa finestra sul dolore dell’uomo.
Dramma di carattere fortemente ibseniano, Dopo il matrimonio, è un riadattamento di un omonimo film danese, scritto e diretto da Susanne Bier. Quest’ultimo, grazie allo scenario emotivo intricato che portava in scena, folgorò non solo diversi produttori, ma la stessa Julianne Moore. Fu così che, quando Joel B. Michaels (produttore) contattò il regista-sceneggiatore Bart Freundlich, marito della stessa Moore, l’attrice premio Oscar convinse il compagno a cambiare le carte in tavola e a non darle il ruolo dell’unica donna, trasformando il film in un remake al femminile.
Nel ruolo di Jorgen, che qui diventa Theresa, la Moore ha riscontrato una profonda tridimensionalità data dal confine interno allo stesso personaggio tra una forte determinazione e un’enorme fragilità. Fragilità che viene trasmessa visivamente da una delle prime immagini del film americano. Theresa sta camminando con il cane, quando il suo tragitto è interrotto da un albero sradicato. Quest’immagine esprime un forte contrasto. Infatti, l’albero sembra massiccio, ma allo stesso tempo non spicca verso l’alto, ma è a terra, inerme allo stesso modo di Theresa, come suggeriscono fin da subito la fotografia e la recitazione di questa scena. Le verità nascoste, che verranno a galla durante l’intera narrazione, trovano in questa sequenza un altro simbolismo: un nido spezzato, con delle uova rotte, irreparabili, per l’appunto fragili.
Il film, con una profonda calma, data sia da una regia sospesa, che da un’intensa colonna sonora, cerca allora di mostrare una lotta primordiale per la sopravvivenza e la protezione di qualcosa di caro, nonostante la propria vulnerabilità. Su questo versante, Theresa non è l’unica in preda a un tormento interiore. Tutti i personaggi sono profondamente umani, guidati da una forza ineluttabile, ma anche incapaci di avere il controllo anche della propria esistenza.
Tutto ciò viene affrontato sia dalla Moore, ma anche da Michelle Williams (Isabel), da Billy Crudup (Oscar) e da Abby Quinn (Grace), tramite un’interpretazione minimalista particolarmente efficace, che mostra la tenerezza, la grazia, ma anche la fallibilità e la fallacia tipiche di quella zona grigia, molto labile, che contraddistingue l’esistenza umana. Oltre alla recitazione, anche la fotografia, che attua un gioco di ombre e luci sui volti degli attori e utilizza atmosfere calde e fredde al medesimo tempo, e la regia, che dilata i tempi, rendono palpabile quella voglia di superare i propri limiti e di ottenere il controllo sulla propria vita, esattamente come un moderno Icaro, che, però, dopo essere caduto, di fronte a un insormontabile dolore, trova la forza di rialzarsi, diventando consapevole, però, della propria vulnerabilità e dell’incapacità dell’uomo di poter riparare tutto.
Dopo il matrimonio è un film che coglie alla perfezione la psiche umana mostrando quanto possa essere labile il confine tra ciò che definiamo come forza e quello che vediamo come fragilità. Dunque, grazie a un abile lavoro di regia, direzione della fotografia e di recitazione, Dopo il matrimonio si presenta come un’opera ibseniana e profondamente tridimensionale, capace di dare una lettura reale e originale a quel tormento interiore da cui sono costituiti i rapporti umani: un mix di conflitti e contraddizioni, di conscio e inconscio.