Oramai abituati a cavalcare le autostrade cyber-telematiche, in cui ogni utente diventa effettivamente un’unità funzionale all’andamento continuo dell’algoritmo di rete, siamo masse bio-tecnologiche informi che “nascondono” il privato nell’organo elettronico pubblico e che si battono per una quantità spropositata di feedback virtuali mai completamente soddisfacenti. Da un lato, dunque, la cultura dell’Internet ha alimentato la necessità di esplorare gli spazi invisibili dell’elettromagnetismo per trovare nuove possibilità di data-salvataggio e dall’altro ha fomentato i desideri umanamente egoistici del sentirsi apprezzati, saturi e riconosciuti.
Evitando ora di cadere nel moralismo spicciolo e cercando possibilmente di rimanere sul percorso quanto mai costruttivo della riflessione benefica, è evidente che la contemporaneità sia afflitta, tra le altre cose, anche dalle esacerbanti piaghe della promozione compulsiva di immagini e dell’ossessivo “fottere la notizia” giornalistico che mai si cura della verità. Esplorando così la complessità dell’oggi, Don’t Look Up (trailer) di Adam McKay diventa di conseguenza il manifesto definitivo di una realtà a rischio estinzione. McKay dipinge con penna satirica un quadro eticamente corrotto e moralmente disorientato: tra le cause di disorientamento e confusione vi è la presenza di una comunità politica interessata unicamente alla diffusione codarda di un’immagine deformata, che risulterà pertanto ipocrita sotto ogni punto di vista; a questo scenario (già di suo) desolante si aggiungono anche le altrettante catastrofiche frammentazioni della coscienza collettiva e del social intra-rete, incapaci di smuovere le menti di fronte ad un cataclisma imminente – una cometa non identificata si abbatterà sulla Terra e si ritiene che il suo effetto possa essere così catastrofico al punto da poter provocare l’estinzione della razza umana.
La prima frammentazione è causata dall’azione sminuente e bovina di canali di comunicazione (primo fra tutti il popolarissimo talk-show condotto da Jack Bremmer e Brie Evantee, ovvero dai personaggi interpretati da Tyler Perry e Cate Blanchett) che svalutano una situazione che, senza alcun intervento, potrebbe tramutarsi in tragedia; la seconda è il risultato di quella parte della cultura social intra-rete, fin troppo soporifera e chiusa ad una qualsiasi forma di dibattito critico, che lascia emergere senza vergogna le più infime qualità dell’individuo – per gran parte del film l’astronoma Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) appare nel senso più dispregiativo del termine come un fenomeno Meme da baraccone su Twitter e su altri canali social. Andando avanti nel film scopriremo che le animate frammentazioni circa la coscienza collettiva e il social intra-rete sono specchio sofferto delle drammaturgie dei due protagonisti, il dottor Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) e Kate Dibiasky (Lawrence). Lo sceneggiatore e regista Adam McKay costruisce quindi due personalità puntualmente inascoltate e professionalmente insoddisfatte – qui ritroviamo un’analogia col periodo Covid-contemporaneo e quella ricerca scientifica traviata dal becero negazionismo e dall’angosciante scetticismo – che trasportano i pesi di una società malata e decadente.
Mindy e Dibiasky vestiranno tuttavia le frammentazioni/fratture del contemporaneo vivere in maniera diversa: l’ansioso dottor Mindy diventa uno degli artefici della svalutazione dell’informazione, accentandola a malincuore come necessaria e lasciandosi sedurre dalla tentatrice Brie Evantee; la ribelle dottor Dibiasky sarà, al contrario di Mindy, vittima di un offensivo mondo social intra-rete sempre pronto a far diventare virale un’inutile caricatura dello scienziato stesso. Coscienza collettiva e mondo dell’Internet si vestiranno dunque di crepe che si rifletteranno sulle drammaturgie dei protagonisti e che si ingigantiranno ulteriormente a causa dell’incredibile tossicità degli apparati di governo – difficili da guardare sono le scene in cui sono presenti il presidente Janie Orlean (Meryl Streep) e il figlio Jason (Jonah Hill), veramente spregevoli e rivoltanti.
Don’t Look Up è metafora di un contemporaneo perennemente connesso e corrotto sia eticamente che moralmente. Animato dall’energia satirica del maestro McKay, il film ripercorre la strada di denuncia intrapresa comicamente dallo stesso regista-sceneggiatore con Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy (2004), Fratellastri a 40 anni (2008) e Anchorman 2 – Fotti la notizia (2013) – tre opere demenziali che criticano fortemente i mondi della conduzione televisiva, del divismo, della santa istituzione familiare americana e della mascolinità eternamente infantile – e proseguita magistralmente con opere più mature e impegnate, ovvero La grande scommessa (2015) e Vice – L’uomo nell’ombra (2018) – il primo sulla crisi economica del 2008 e il secondo sul vicepresidente Dick Cheney.
Don’t Look Up ha infatti una vena ampiamente satirica che coniuga i toni demenziali dei primi tre film sopra citati con le atmosfere più serie dei secondi: il film di McKay del 2021, ad esempio, spoglia DiCaprio di qualsiasi caratteristica affascinante e carismatica – in Don’t Look Up lo vediamo con barba lunga, occhiali, camicia e pantaloni stracciati, giacchetta di un marrone color morto, indecisione costante, paranoia, attacchi di panico e mancanza di respiro – avvicinandolo così (per quanto possibile) ai personaggi bambinoni di Will Ferrell (protagonista assoluto dei film del 2004, 2008 e 2013) e, allo stesso tempo, Don’t Look Up conserva quella serietà di fondo e impegno social-politico che hanno contraddistinto le due opere del 2015 e del 2018.
L’ultimo film di Adam McKay è forse meno tagliente de La grande scommessa e di Vice – L’uomo nell’ombra, complici probabilmente i suoi piani produttivi e distributivi. Se infatti i film del 2015 e del 2018 sono stati prodotti dalla Plan B Entertainment di Brad Pitt, Don’t Look Up è stato acquistato da Netflix prima ancora di entrare in produzione Paramount (la prima casa a sviluppare il progetto). Il sostrato mainstream della cinematografia di McKay è sempre presente ma è comunque percepibile una nota che, se confrontata con gli strabilianti lavori del 2015 e del 2018, suona amaramente stonata. La causa di tale nota stonata potrebbe risiedere proprio nel fatto che Don’t Look Up è stato prodotto e sarà distribuito dal popolarissimo colosso dello streaming. Per ragioni di visione, dunque, il film deve essere facilmente accessibile sia dal punto di vista pratico – un click e sei su Netflix – che dal punto di vista intellettuale – i personaggi sono macchiette e quindi facilmente identificabili (questo fatto non snatura fortunatamente la godibilità del film anche presso una sala cinematografica).
Nonostante si possa rimanere relativamente delusi, il nuovo film di Adam McKay è una parabola satirica assolutamente attuale che solo in apparenza rimane un film di genere catastrofico. In profondità, invece, Don’t Look Up si trasforma in un film lirico sul bisogno di ricongiungimento/contatto che sa parlare dei comportamenti umani senza mai cadere nello scontato: il gesto di alzare gli occhi al cielo e osservare l’asteroide bello e minaccioso è in realtà simbolo della necessità di alzare gli occhi dallo schermo di un qualsiasi dispositivo elettronico e posarli sulla persona “veramente viva” accanto a te. In conclusione, Don’t Look Up è una favola articolata sulla nostra relazione coi media e col potere, e sul bisogno autentico del ritrovarsi comunitario.
Ancora disponibile al cinema, Don’t Look Up uscirà su piattaforma Netflix a partire dal 24 Dicembre.