All’interno del Festival Dominio Pubblico – La città agli Under 25, una rassegna di opere teatrali, filmiche e corti di danza dal vivo realizzati esclusivamente da artisti Under 25. Per quanto riguarda i prodotti audiovisivi, vi è posto anche per opere cosidette “da festival” che, appunto, stentano a trovare un loro spazio nella distribuzione delle sale. Il Festival, tenutosi dal 30 maggio al 4 giugno tra il Teatro India di Trastevere e il Cinema Aquila del Pigneto, ha presentato fuori concorso un interessantissimo mediometraggio del giovane filmmaker Davide Crucetti, Mingong.
Girato nell’estate 2015 nella provincia cinese del Guizhou, una delle zone del pianeta più dense di popolazione in assoluto, presenta elementi di estrema particolarità sia da un punto di vista stilistico che tematico – il documentario è infatti interamente dialogato nella rarissima lingua Dong, un idioma simil-mandarino talmente particolare e privo addirittura di alfabeto, tanto che alcuni brevi passaggi non sono stati neanche sottotitolati, proprio per la grande difficoltà di traduzione e traslitterazione letterale. Curiosità a parte, il film ci narra di alcuni giovani e anziani del villaggio di Dimen, della loro difficoltà di sopravvivenza, dell’esodo di molti giovani verso il fin troppo noto e secolare “cammino della speranza” (non vi è posto comunque per il verismo del film di Germi). In cinquanta minuti di impressionante bellezza nelle immagini, suggestivamente fotografate dal regista stesso, ci passano sotto gli occhi una sarabanda di tradizioni familiari quali il canto collettivo (denso di poesia nei versi) nelle feste di famiglia, i gesti ripetitivi ma mai sofferti dei lavori dei contadini e delle donne dei villaggi, interviste sulla quotidianità (e ripetitività) dei personaggi del posto, tutti rigorosamente presentati con didascalie.
Il film, seppure stringato nella sua dimensione, risulta un reportage di indubbia onestà e decoro professionale, memore indubbiamente dell’ideologia da film-inchiesta dell’Antonioni di “Chung Kuo Cina” (1972), ma anche della ricerca sullo spazio e sul tempo del cinese Wang Bing e dei suoi docufiction quali “Il distretto di Tiexi” (2003, nove ore) o “Feng Ai” (2012) oppure ancora di “Rainmmakers” (2011) di Floris-Jan van Luyn, per non parlare dell’uso funzionale della presa diretta, che ben si raccorda con la compostezza impressionista delle immagini. Quello che colpisce ancor di più è la spontaneità e la volontà di esposizione davanti all’obbiettivo cinematografico dei popoli filmati che – a detta delle parole dello stesso regista durante la presentazione in sala – risulta quasi come un vettore di senso umanitario progressivamente perduto nelle popolazioni contadine occidentali. Una duttile e perspicace lezione di documentario corale che sancisce come consuetudine l’elevata dose di pathos nella messa in atto di un film-inchiesta etnografico: antropologia XXI secolo work in progress.
di Gianmarco Cilento