Diamanti, la recensione: il femminile raccontato da un uomo

Il nuovo film di Ferzan Özpetek, Diamanti (trailer) si presenta come un racconto corale, con l’aspirazione di restituire l’universo femminile attraverso una sorta di “nazionale” composta da 18 talentuose e celebri attrici italiane. Tuttavia, in questa celebrazione collettiva, la presenza del regista irrompe con forza: Özpetek si rivolge direttamente agli spettatori in un cameo puramente egoriferito.

Al centro della narrazione troviamo le protagoniste: Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca), due sorelle che hanno fondato una sartoria specializzata nella creazione di costumi di scena per il mondo dello spettacolo. L’ambientazione negli anni ’70 non è casuale ma è un ritorno nostalgico agli anni in cui Özpetek, da giovane aiuto-regista, ha vissuto la magia della sartoria Tirelli di Roma, luogo iconico della creazione dei costumi teatrali e cinematografici. La stessa magia viene restituita in modo autentico grazie alla presenza di vere sarte nel cast, all’ambientazione in un set interamente ricostruito e alle splendide e suggestive location. Tuttavia, l’inizio del film richiama inevitabilmente Il diavolo veste Prada, con Alberta che interpreta una sorta di Miranda Priestly all’italiana; come se essere tirannica sul posto di lavoro potesse automaticamente conferirle l’aura di donna forte e indipendente. Un cliché che viene gradualmente decostruito nel corso della narrazione attraverso lo sviluppo della complessa relazione con la controparte e sorella “buona” Gabriella.

Quello di Gabriella risulta essere un personaggio ben scritto, la cui storia drammatica si svela a piccoli passi mostrando un dolore taciuto attraverso un’interpretazione di grande profondità e sensibilità. Oltre alla complessa relazione tra le due sorelle, che avranno modo di confrontarsi e riscoprirsi, la storia viene portata avanti dall’espediente della creazione di una serie di costumi di scena, in collaborazione con la costumista premio Oscar Bianca Vega (Vanessa Scalera). Anche il personaggio di Bianca verrà presto smascherato e decostruito: inizialmente presentata come un genio incompreso capace di trarre ispirazione da dettagli apparentemente insignificanti (l’involucro di una caramella), si mostra poi profondamente insicura riguardo al suo talento quando le sue scelte vengono messe in discussione dall’arrivo del regista (un uomo non a caso).

Un’altra storia di rilievo è quella di Nicoletta (Milena Mancini), una donna vittima di abusi da parte del marito (Vinicio Marchioni) che interpreta il classico ruolo di “orco cattivo”, riducendo così la vicenda ad una rappresentazione stereotipata della violenza domestica. La trasformazione di Nicoletta viene raccontata in modo corale, grazie al sostegno delle altre donne e al ruolo dell’amica e spalla comica interpretata da Geppi Cucciari, che permette al personaggio della donna di ritagliarsi quantomeno uno spazio più ampio rispetto alle altre. È chiaro dunque che la narrazione perde il focus nel tentativo di dare il giusto spazio a ogni storia e un ruolo significativo a ogni attrice, finendo per fare l’operazione opposta e, dunque, marginalizzarle o semplificarle. Il risultato è un contesto variegato che, pur ricco di rimandi a quel periodo storico e pieno di vicende potenzialmente interessanti, non riesce a dare loro la profondità necessaria per offrire una riflessione davvero incisiva.

Inoltre, all’inizio, a metà e alla fine del film, la narrazione si interrompe per far spazio a momenti di backstage in cui il regista espone apertamente le sue intenzioni: lavorare con un cast esclusivamente femminile e creare un’opera che celebri le donne. Due dichiarazioni ridondanti, visto che il film stesso e il cast già comunicano chiaramente questa scelta. Si può allora sospettare che tali intermezzi servano principalmente a giustificare la presenza dell’attrice Elena Sofia Ricci, altrimenti assente dalla trama. In una delle scene finali, con il suo abito di scena, l’attrice (dopo aver dichiarato nel precedente intermezzo di non poter prendere parte al film per problemi personali) offre a Özpetek un ulteriore spazio per le sue riflessioni metacinematografiche e puramente personali. Elemento che viene esplicitato nel messaggio finale, che recita: «Il film è dedicato a Mariangela Melato, Virna Lisi e Monica Vitti, tre donne straordinarie con cui avrei voluto lavorare ma, per motivi diversi, non è stato possibile». Una dedica che, pur onorando tre grandi attrici, ribadisce il desiderio del regista di raccontare le donne attraverso il proprio sguardo, spesso mettendo al centro il suo rapporto personale con loro.

In conclusione, Diamanti si orienta su due fronti distinti: da un lato esplora una visione collettiva del femminile, esemplificata dalla riflessione delle sarte che, sentendosi “nulla” se non quando uniscono le loro forze, mettono in luce la potenza della solidarietà e della collaborazione tra donne. Dall’altro, il film indaga le fragilità delle donne più emancipate, come Alberta e Bianca, che, nonostante il loro successo apparente, nascondono insicurezze profonde legate al loro ruolo nel mondo e al confronto con le aspettative degli altri. Nonostante ciò il film non riesce a restituire in modo completo la complessità del sentirsi donna nella società contemporanea, così come in quella degli anni ’70. Inoltre, i momenti metacinematografici, al di fuori della trama principale, risultano decisamente più dichiarativi che incisivi.

Dal 19 dicembre al cinema.

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