Diabolik, la recensione: se bastasse il desiderio…

Diabolik recensione film Manetti Bros.

Nel Diabolik dei Manetti Bros. tutti desiderano ardentemente qualcosa. «C’è chi segue una religione, c’è chi insegue il primo milione, c’è chi insegue il suo grande amore, e c’è chi insegue la propria fine» canta Manuel Agnelli nell’ottimo singolo La profondità degli abissi, che accompagna l’efficace sequenza iniziale del film. Un film complesso da collocare, che arriva a più di cinquant’anni dall’adattamento del celebre criminale a opera di Mario Bava (era il 1968 e tracciava vie cinematografiche ultrapop) e che nelle mani dei Manetti va a seguire traiettorie che sfidano la corrente dell’intrattenimento commerciale contemporaneo.

Il demone Diabolik agogna quasi ipnotizzato la lucentezza del gioiello – emblematico un anello che cadrà in acqua nel finale -, coltivato con l’essenzialità di un animo spietato che esce fuori dagli albori del personaggio creato dalle sorelle Giussani e che qui si rifà in particolare al terzo albo della serie originale, L’arresto di Diabolik. L’affascinante e misteriosa Lady Kant, che proprio in quell’albo fa la conoscenza del criminale, sogna una storia d’amore che la metta alla pari al fianco del compagno che, nel corso del film, diverrà partner in crime. Infine c’è Ginko, la nemesi giurata dello spietato ladro (sì, perché qui ancora ammazza senza scrupoli e lascia scie di cadaveri), pipa in bocca e distintivo in tasca, con il quale condivide un rapporto simbiotico quasi ai pari della natura controversa che stringe assieme Batman e Joker.

Ecco, fin quando l’adattamento dei Manetti Bros. lavora sul valore espositivo delle icone l’impatto è estremamente positivo. Paradossalmente Luca Marinelli è quello che al colpo d’occhio rende di meno, ma è invece innegabile il physique du rôle che contraddistingue Miriam Leone nei panni di Eva o l’attitudine alla parte di Valerio Mastandrea calato nella figura dell’ispettore della polizia di Clerville. Appena tutto entra in interazione, però, il fascino della composizione dell’immagine è come se fosse istantaneamente prosciugato della sua forza intrinseca e lasci sul posto parvenze, sensazioni risucchiate da un carattere che si muove quasi scollato rispetto al valore di ciò che è messo in scena.

Diabolik recensione film Manetti Bros.

Torniamo proprio alla scena iniziale, un inseguimento per le strade della città di Clerville. Diabolik ha appena commesso un furto e scappa a bordo dell’immancabile Jaguar, con diverse automobili della polizia che gli stanno attaccate. Visivamente c’è tutto, tutti i correlativi oggettivi sono al posto giusto nel risvegliare un immaginario: gli occhi scoperti di Diabolik, i gadget e le scorciatoie di cui si serve, Ginko alle calcagna, una città sospesa nel silenzio notturno (assemblata con micro-sequenze tra Roma, Bologna e Milano). Eppure eccolo lì, lo scollamento, lo notiamo subito.

Queste macchine che sfrecciano sotto la luce dei lampioni sembrano muoversi a rallentatore, sembrano lasciarsi osservare nella lucentezza del loro valore di immediato richiamo, sembrano interagire sotto gli stringenti dettami di una direzione registica che sconfina e costringe a frenare, ad assopire ogni calore. C’è la sacra vignetta, c’è un’adiacenza totale alla fedeltà dell’inchiostro disegnato su carta. Certo, si dirà che il lavoro in Diabolik dei Manetti sia prosecuzione della loro fascinazione per il cinema di genere degli anni Sessanta, a cui guardano e dal quale traggono ispirazione, e sicuramente è così. È anzi palese questa volontà di risalire al contrario le acque di una cultura dell’intrattenimento odierna fatta dell’ipertrofismo muscolare di matrice hollywoodiana, ponendosi agli antipodi in cui Diabolik è un film che vive quasi di continue sospensioni, dilatazioni di una narrativa visiva dove anche le scene d’azione seguono il corso di un coltello lanciato in aria e non tanto l’impatto di questo nella schiena del malcapitato.

C’è però anche da domandarsi qual è il punto di demarcazione che incrocia la volontà artistica a quello che abbiamo chiamato scollamento. È nel gusto dell’oggi abituato a tutt’altro (e, quindi, sarebbe pure da chiedersi il valore di un’opera così consapevolmente demodé), oppure in quel già citato sconfinamento delle intenzioni sul piatto di un diegetico sfibrato totalmente di pathos? Perché l’elefante nella stanza sta sostanzialmente qui, nell’incapacità di Diabolik di porsi come un lavoro in grado di conciliare il valore di mera esposizione – fatto di un’ottima ricercatezza su costumi e scenografie – al carattere di godibilità di una narrazione tesa nel mezzo di un’origin story e di un heist movie.

Diabolik recensione film Manetti Bros.

La durata è corposa, 133 minuti, e deve legare assieme l’esile e il quasi macchiettistico sbocciare d’amore (sì, anche per uno spunto da fumetto), tra la purtroppo tutto sommato mediocre Eva Kant della Leone e l’eccessivamente catatonico Diabolik di Marinelli, a una seconda parte in cui la pellicola dovrebbe accelerare e dedicarsi alla costruzione della tensione. Invece il film prende tutto il tempo, in tutte le sequenze, scelte volte a esasperare questo intreccio o quel personaggio in nome di ciò che più può guardare al testo originario, disinteressato – coraggiosamente? – del testo per immagini-in-movimento. Sono da non credere momenti come quelli in cui il letale ladro si deve nascondere nell’armadio (per davvero troppi minuti e senza sfumature di ironia) comunicando con l’amata tramite codice morse, così come è francamente indifendibile su senso e utilizzo fattone la parte affidata a Serena Rossi.

E sopra tutto questo si mantengono le briglie strettissime, irrigidendo le performance, privando del nervo le psicologie individuali e le dinamiche generali. Di quei forti desideri che spingono e motivano il trittico protagonista di Diabolik resta solamente l’impulso al movimento, all’incedere in avanti con costanza, cornice per cornice, e senza picchi evolutivi, dove a sovrastare ogni cosa è l’unico reale desiderio, quello dei Manetti (per carità, sacrosanto!), che finisce per fagocitare tutto il resto a cui tocca accontentarsi di vivere di istanti ammalianti e poco più.

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