#IFF20: Desert Hearts di Donna Deitch, ancora 40 minuti insieme

Immaginaria International Film Festival of Lesbian and other Rebellious Woman è un festival nato nel 2005 a Bologna dalla mente di Marina Genovese, militante del movimento lesbo-femminista separatista, a sua volta creato a Roma da Miranda Sabatini, che vede un accentramento nel triangolo con Bologna e Catania. 

Nella società patriarcale degli anni ’80-’90, la cinematografia omosessuale non riesce a trovare il suo giusto spazio; è in questo contesto che Genovese ha l’idea di creare un festival interamente dedicato alla filmografia lesbo.

Arrivata alla sua ventesima edizione, la serata inaugurale del Festival si è tenuta venerdì 11 aprile al Cinema Nuovo Sacher con la proiezione del film Desert Hearts (1985) (trailer)scritto da Natalie Cooper e diretto da Donna Deitch, liberamente tratto dal romanzo Desert of the Heart (1964) di June Rule

Desert Hearts recensione IFF20

Deitch, presente in sala, spiega che in quegli anni cercava una storia lesbo da raccontare e, sotto consiglio di un’amica, si avvicina alla lettura del romanzo di Rule. La trasposizione cinematografica non si cura di restituire il tono intimista del romanzo, l’obiettivo di Deitch è invece quello di voler restituire l’apparente distanza che intercorre tra le due protagoniste, e la scommessa – riproposta negli ambienti del casinò nel quale una delle due lavora – che decidono di accettare: lo stare insieme, in un periodo nel quale il pregiudizio e il maschilismo dilagano nel substrato sociale e culturale della cittadina di Reno, Nevada; e non solo. La volontà di Deitch è quella di realizzare un film simile a The Misfits (John Huston, 1961) – racconta di essere rimasta affascinata dall’ambientazione desertica e dal tema del divorzio, presenti sia nel film di Huston che nel romanzo di Rule. Il felice connubio tra tutte le coincidenze convinse la regista americana a realizzare il film, il cui budget arrivò a circa un milione di dollari.

L’arrivo della studiosa di letteratura Vivien (Helen Shaver) al ranch della cittadina crea scompiglio nella vita dell’entusiasta Cay (Patricia Charbonneau), che vive nel cottage del ranch, dove crea le sue sculture lavorando la ceramica. Entrambe le donne escono da una relazione eterosessuale: Cay ha lasciato il ragazzo che ancora vorrebbe stare con lei, e lo stesso Vivien, che arriva in Nevada per completare le pratiche di divorzio col marito. La dimensione patriarcale di quegli anni è restituita da battute da bar e ammiccamenti vari. Tale rappresentazione del maschile, però, non è presentata con pregiudizio, ma è inserita in un contesto che invita lo spettatore al sorriso nel vederle rappresentate, proprio perché riscontrabili anche nella vita quotidiana.

Il film ci invita a compiere un viaggio nel quale Vivien, non solo prende consapevolezza della sua omosessualità, ma si rende anche conto che la vita perfetta e invidiata dal mondo accademico che conduceva, non era ciò che voleva ma ciò che pensava di dover volere. Vivien imparerà a lasciar andare i preconcetti, sia quelli che ha anche per sé stessa, sia quelli che le persone, come Frances (Audra Lindley), proprietaria del ranch e molto affezionata a Cay perché figlia del grande amore della signora, che comunque non riesce ad accettare la sessualità della ragazza.

Il film s’inserisce nel contesto di rappresentazione di storie d’amore lesbo ma prende le distanze dai finali che convogliano le protagoniste al suicidio o ai triangoli amorosi e si delinea come la prima opera che mette al centro la speranza di un futuro nel quale le due donne possono effettivamente passare insieme la loro vita, lontane dai pregiudizi sociali di quegli anni. È questa la vera svolta che il film di Deitch apporta alla cinematografia lesbo.

Desert Hearts recensione IFF20

Un intervento in sala, dopo la proiezione, dimostra l’impatto sociale e culturale che il film ha avuto: negli anni ’80 un gruppo di amiche, attiviste del movimento lesbo-femminista separatista, si ritrovano al cinema per andare a vedere il film. Arrivato alla sua conclusione, commenti e fermento animano questo gruppo di donne, desiderose di varcare il confine bidimensionale dello schermo cinematografico per « spingere » la protagonista a salire su quel treno e trovare finalmente il suo lieto fine. 

Una delle controversie che la critica mise in risalto è legata all’esperienza che ebbe il focus group messo in piedi dalla Several Goldman, produzione alla quale venne venduto il film, che ebbe la percezione che la scena di sesso tra le due donne durasse troppo. Deitch, comunque, mise in chiaro che non avrebbe apportato nessun taglio al film. E la scelta si rivelò evidentemente la più giusta, considerate le nomination che il film ricevette: al Festival di Locarno nel 1985 Shaver venne premiata con il Pardo di bronzo, e nel 1985 al Sundance Film Festival ricevette la Menzione d’Onore: U.S. Dramatic, e venne nominato nella categoria Gran Premio della giuria: U.S. Dramatic. 

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.