Non so, ma quando sulla mia casella di posta elettronica universitaria è comparso l’annuncio di MUBI che dal 12 febbraio sarebbe stato disponibile Dead Pigs (trailer), l’entusiasmo ha iniziato a divampare. E se è vero che con la pandemia si è andato a smorzare il fulcro dell’esperienza cinematografica, quella sensazione vibrante di condivisione e comprensione che si illuminava dentro di noi non appena, nel buio della sala, venivamo immersi dalla luce spettrale e sognante di quell’enorme schermo, è anche vero che tale emozione è tangibilmente palpabile fin dai primi minuti del film d’esordio di Cathy Yan (Birds of Prey). Presentato al Sundance nel 2018 e visibile sia su MUBI che tramite l’abbonamento premium di Amazon Prime Video, Dead Pigs disvela il suo potenziale già dai titoli di testa, che si incorporano in un’embrionale immagine che va al di là della convenzionale demarcazione tra diegetico ed extradiegetico, tra la spettacolarizzazione e l’archetipico.
Oltrepassato il logo della Rewild, l’occhio dello spettatore continua a immergersi nel flusso verde dell’acqua e dei suoi riflessi che scorrono in armonia con la musica, che diventa avvolgente e primitiva. L’immagine scorre verso il basso, lasciando intravedere la zampa di un maiale morto. Siamo sempre più immersi nel sonoro e nell’immagine filmica, che trasforma fluidamente il proprio statuto. Il frame diventa parte di una realtà virtuale a cui sta partecipando un signore di mezza età. (Il signor Wang). Nel suo divertimento riconosciamo un candore infantile, che rievoca lo stupore del primo pubblico cinematografico. Un qualcosa che per noi può apparire normale e, spesso, inflazionato nel contesto audiovisivo, qui si rianima di quell’essenza magica, che trova le sue radici in una sponda intimamente umana. Sfumatura esistenzialista marcata anche dal modo in cui Yan stabilisce di fare ricerca nelle sue riprese.
Partendo già da questa prima scena, la regista mostra un uso diverso dal comune del dispositivo d’immersione virtuale nel contesto filmico. Infatti, l’immagine che ne scaturisce non diventa mai parte diegetica della visione. Il fulcro non è lo spettacolare, ma quel fine granello rappresentato dalle vite umane che Dead Pigs decide di accogliere e cullare silenziosamente. E così, alla fine del primo blocco della sequenza d’apertura, ci rendiamo conto che quell’acqua era davvero primordiale, perché frutto non di una realtà virtuale, ma di una intradiegetica, tanto affascinante, quanto profonda. Così, dopo aver seguito la rocambolesca personalità del signor Wang, nuovamente la vista di un maiale morto ci fa cambiare marcia e, con un J-cut, entriamo in un’atmosfera di rigore militare. Rigore che, tuttavia, mostra stilisticamente la sua vera natura.
La macchina da presa, infatti, diventa imprecisa nella messa a fuoco. Ed è in questa disarmonia con il tono stesso della scena che Dead Pigs mostra la sua specificità: la sua capacità di entrare nei meandri dell’esistenza umana e nella potenza della sua fragilità. A esserci presentata stavolta è Candy Wang: una donna ferrea, molto matura, carica, forte. Eppure, appena Yan stabilisce questo punto fermo nella caratterizzazione di Candy, che sembrerebbe essere lontana anni luce dal signor Wang (fratello sventurato della donna), le somiglianze vengono a galla. In mezzo alle macerie, emerge l’azzurra casa della signora Wang. Spiazzati, rimaniamo incollati a un senso familiare di precarietà, la stessa che precedentemente ci avvolgeva vedendo il volto preoccupato del signor Wang, la stessa che ci cingerà durante tutto il film, la stessa che, forse, sembrerebbe suggerire la regista, ci avviluppa ogni giorno della nostra esistenza.
L’icona che ci viene presentata è quella della “casa chiodo”: case frangibili, case che resistono nella loro tradizione a quel mare di cemento che avanza inesorabile. Con questa inquadratura, unica e umana nella sua delicatezza color pastello, Cathy Yan descrive, senza bisogno di parole, tutto il suo film, tutto il suo pubblico e tutti i suoi personaggi, che impasta perfettamente tra le rime intricate di un filo sottile. Così, tra le luci fredde e la bicromia rossa e blu del neon, si animano i tre nuovi personaggi, che ai nostri occhi non possono che apparire come figli di quell’immagine spettrale e rivoluzionaria precedente. Prima di procedere, tuttavia, è interessante notare anche la consapevolezza retrospettiva che il portato della casa chiodo contiene nel suo grembo traumatizzato, ma ancora estremamente fertile. Questa risulta, infatti, il secondo rimando di Dead Pigs a una realtà tangibile, che viola le barriere tra reale e documentario.
Nel 2013 dal fiume Huangpu emergono migliaia di carcasse di maiali. L’occhio critico della Yan, dunque, decide di sperimentare sulla linea sottile che scorre tra la verità e la finzione, quasi analogamente, a livello concettuale, a quanto aveva fatto Jia Zhangke, tra controllo e caso, lungo le maglie sofferte delle fondamenta dei palazzi che crollano di Still Life e Dong. E, in questa filosofia amara, l’immagine delle case chiodo si erige a simbolo paradigmatico di una società che scompare, dello smarrimento delle radici di un’intera generazione. In tutto ciò, pregnante diventa quell’incontro-scontro tra Candy e suo fratello, tra la resistenza e la sopravvivenza. Tale demarcazione si assottiglia dinnanzi al cuore materico che pulsa tra le macerie, non tanto degli edifici, quanto dell’esistenza umana, dalla cui ferita vivida sgorgano fuori cinque anime perse (sei compreso lo spettatore), che cantano e danzano tirate dai fili di un’opera coralmente lirica e lugubre.
Nello spazio vuoto e profondo che si trova al di là del singolo frame, le citazioni cinematografiche diventano parte fondante dell’intera natura di Dead Pigs. Se Candy Wang viene dipinta tramite His Girl Friday (emblematicamente associato all’epoca d’oro del cinema classico, del cinema del passato, ma di un cinema occidentale), il riferimento filmico con il signor Wang è meno evidente, ma molto più potente. Nel modo in cui, infantilmente, il protagonista gioca con la realtà virtuale, non si può infatti non intravedere un altro racconto corale, quello di Buon giorno di Ozu, autore, tra l’altro, particolarmente legato al discorso delle radici di appartenenza e della contrapposizione tra la tradizione e la modernità occidentalizzata. Tramite una messinscena fortemente consapevole e abilmente costruita, perciò, Yan mette il conflitto in seno ai propri personaggi, le cui lotte risultano diametralmente opposte al loro statuto narrativo.
Nello sguardo che lo spettatore lancia, si fa largo una nuova riflessione, dove la realtà non è più centrale. Centrale diventa il rapporto che, in quel rettangolo transmediale (o “transreale”) dello schermo, la macchina da presa fonda con gli abitanti che la vivono dall’interno e dall’esterno. Ed è in questa coralità che emergono anche i richiami visuali a Rebels of The Neon God di Tsai Ming-Liang (per esempio, nella stretta dei due ragazzi sulla bicicletta o nel rapporto tra i protagonisti e l’ambiente che li circonda) e quelli a Magnolia di Paul Thomas Anderson (dall’uso delle luci, a quello del colore, al parabrezza dell’auto, alla coralità stessa). La regista sottolinea così la solitudine intrinseca dell’uomo contemporaneo, abbandonato alle proprie mancanze e ai propri vuoti d’essere.
Vuoti, come quello che si viene a creare nell’inquadratura nel momento in cui il figlio del signor Wang, accettando le caramelle dal padre, esce fuori campo, lasciando, come unica via di fuga di un frame sbilenco, il bordo sporco e rotto di un ombrello. Il racconto di Dead Pigs diviene, dunque, una rete labirintica di essenze, di sospiri, di persone imperfette quanto la fallacia della macchina da presa che le cerca di contenere e il sonoro è il primo elemento che sfugge a questo tentativo di essere trattenuto. Il mix audio gioca, infatti, con la categorizzazione di filmico e metafilmico, di diegetico ed extradiegetico, nuotando in una nuova dimensione, la stessa dell’immagine iniziale, una dimensione intradiegetica e profondamente archetipica. In sintonia con tutto questo, il titolo, circoscritto dal neon, si mostra, per la prima volta, alla fine della visione, inglobando nuovamente lo scorrere del fiume, come nella realtà virtuale dell’apertura.
E, così, nel buio delle proprie stanze, gli spettatori si risvegliano, quasi wendersianamente, dai “labirinti delle proprie anime”, consci dell’inconsistenza che circonda, non tanto i personaggi finzionali del film, quanto quelli reali, noi compresi. Cathy Yan, con la sua opera prima, quindi, lascia prendere forma a una terapeutica consapevolezza: la stessa che recita il post promozionale di MUBI su Facebook. Infatti, come questi personaggi, ci rendiamo conto di essere tutti “dislocati e isolati”, eppure, grazie alla magia che, anche in una piccola stanza, solo un cinema semplice ed essenziale può creare, finita la visione, ritroviamo noi stessi nella comunità e ci riconosciamo fragili e potenti come le case chiodo, come i figli del fiume cosparso dai “Dead Pigs”.