Esce finalmente in Italia, ben 30 anni dopo, il trionfatore del 10° Hong Kong Film Awards che impose il nome di Wong Kar-wai nel panorama cinematografico hongkonghese aprendo la strada ai festival internazionali. Il film Days of Being Wild vinse quasi tutto quell’anno, dalla fotografia dell’australiano Christopher Doyle all’interprete iconico Leslie Cheung, fino al miglior film e miglior regia con Wong Kar-wai.
La figura centrale del film è il rubacuori Yuddi (Leslie Cheung) che fa da motore per tutti gli altri personaggi avviandoli e lasciando loro la scena. Ad ogni personaggio che si innamora o incontra Yuddi viene dato equo spazio per conoscerne la vita ed i tormenti e la storia arriva a concentrarsi talmente su di loro da concederne perfino lo spazio della voce off, tramutando così il film in una storia quasi corale su chi ha conosciuto o amato Yuddi il seduttore.
Wong Kar-wai ricorda di avere costruito il racconto dividendolo in quattro movimenti: il primo è un tributo a Bresson e si avvale anche di molti riferimenti al cinema della Nouvelle Vague; il secondo segue le regole del B-movie con movimenti di macchina articolati e raffinati piani sequenza; il terzo gioca sperimentalmente sulla profondità di campo, mentre l’ultimo riprende i temi del secondo alzando il livello di dinamicinità dell’azione.
Il regista in quella fase era molto influenzato dai romanzi di Manuel Puig e cercava di elaborare la sua fascinazione per l’iconografia pop degli anni ’60 americani. La storia inizia nel 1960 e si conclude nel 1967, l’anno politicamente più violento della storia dei territori prima dei nostri giorni; forse non è un caso che a 6 anni dalla riconsegna di Hong Kong alla Cina il regista si interroghi proprio sui tumulti della sua città, riaprendo una ferita ed invitando ad una visione critica del futuro.
Se il marinaio Yuddi rappresenta una parte del mondo rarefatto della Hong Kong dell’autore, il poliziotto Tide, interpretato da un giovane e già carismatico Andy Lau, raffigura la città integrata nel sistema e nelle leggi. Il trasgressore ed il repressore raffigurano le due espressioni dell’identità della città e la sua battaglia per trovare un equilibrio fra le stesse. Ma nel film la potenza espressiva deriva più di tutto dalle sue dive, tutte vittime di Yuddi, e se la giovane Maggie Cheung raffigura il futuro e la promessa di un mondo che verrà, Carina Lau raffigura invece la modernità e la contemporaneità di una città “sedotta”, che nel ’60 si sforza di essere Occidente, nonostante le radici ed il collare invisibile che la riporteranno all’Oriente 37 anni dopo.
Il tempo è l’ossessione del film, gli orologi sono elementi ricorrenti, l’ora e lo scadere del tempo sono strumenti di tensione e di seduzione: Yuddi sedurrà Su Lizhen (Maggie Cheung) proprio presentandosi da lei ogni giorno alle tre meno un minuto e senza proferire parole. In una sorta di riscrittura pop del Don Giovanni, Wong Kar-wai percorre la via della storia del cinema citando i classici di Elia Kazan e l’universo pop di Grease, citando i maestri francesi e giocando con gli stilemi del cinema classico americano ed i ritmi di quello europeo.
L’ultimo elemento chiave del racconto è il rapporto di Yuddi con il mondo femminile, che passa essenzialmente per la relazione con la madre. Il modo con cui l’autore ci racconta tale rapporto, più per metafore visive che per dialoghi, ci fa comprendere come il regista senta questa relazione più nella sua carica uterina e pulsionale che in una forma di analisi ed elaborazione.
I rapporti umani del film sono un processo di pura percezione, non c’è razionalità, non c’è dialogo chiarificatorio, si vola nei sentimenti senza spazio per elaborazioni. Con una frase citata da Yuddi si può sintetizzare questa danza di immagini ed emozioni: «Ho sentito che c’è una specie di uccello senza zampe. Può soltanto volare… e volare, e quando è stanco dorme nel vento. Atterra una sola volta nella vita: quando muore».