«Nessuno ha mai fatto un film su Dante, non potevo non farlo», dichiara Pupi Avati non senza timori ma con una punta di orgoglio. In effetti il poeta porta con sé il pregiudizio di essere inavvicinabile, intoccabile, quasi sacro, timore reverenziale che arriva probabilmente dalla scuola, in cui più che studiarlo lo si subisce. Il regista dice di voler compiere l’operazione inversa con Dante (trailer), ovvero avvicinarlo, renderlo carne e lo fa mettendo in scena i corpi torturati dalle malattie, il tanfo della peste, il freddo della povertà. Ci immerge così in un Medioevo tangibile e ci apre gli occhi su quanto l’idea che si ha di Dante sia lontano dalla vita che in realtà ha condotto.
Per parlare di un uomo impresso nelle memorie per il suo viaggio ultraterreno, ha deciso di portare in scena un road movie all’italiana, mettendo in cammino il primo biografo dell’artista, Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto). Il pretesto è la consegna di dieci fiorini alla figlia di Dante, come risarcimento per l’impietoso trattamento che la città di Firenze aveva serbato al padre. È Boccaccio che evoca alcuni stralci di poesie, talvolta grazie ai luoghi che visita e che Dante (Alessandro Sperduti) aveva frequentato, altre per le persone che incontra e che l’hanno conosciuto. Si alternano le sequenze del viaggio a quelle della vita del protagonista, che sembrano partorite direttamente dalla mente di Boccaccio, spesso cadenzate dai versi delle poesie usati come colonna sonora aggiuntiva. Approccia il viaggio come un orfano che cerca le proprie origini e ponendosi in una posizione di subalternità nei confronti di quello che ritiene essere colui che gli ha fatto scoprire l’unica gioia della sua vita, la poesia.
È un film che ha in sé moltissimi temi, ma che potrebbero non venire intercettati se si è distratti a cercare di capire cosa avviene. Chi è totalmente a digiuno di vita e opere dantesche potrebbe riscontrare qualche difficoltà a comprendere alcuni passaggi un po’ bruschi, ma nonostante ciò Avati ricostruisce così bene le atmosfere da far sentire lo spettatore un cittadino della Firenze dell’epoca.
I temi affrontati sono senza tempo ed è questa l’arma vincente dell’opera. Si parla di amicizia e fino a che punto scendere a compromessi per salvaguardarla, di emarginazione, di amore. Non solo l’amore che ci si aspetta di vedere, quello per Beatrice, ma l’amore per la poesia, per un maestro mai conosciuto. Si parla di Boccaccio, padre inadeguato e che per Dante nutre invece un amore filiale, sublimato a tal punto da rendere il viaggio un’esperienza mistica, di emozioni forti e inaspettate. Ci mostra l’umiltà di riconoscere la grandezza altrui senza sentirla sminuente per sé, la gratitudine di chi riconosce agli altri il merito di ispirarlo senza scadere nell’idolatria sciatta.
Avati non ha mai fatto mistero della sua viscerale passione per Dante e con questo film sarebbe potuto scivolare in molti modi diversi, ma non è accaduto, confermandosi un regista capace di riportare ogni storia sul piano della semplicità, nel senso più alto del termine. In questo caso ci mostra che anche Dante aveva le sue voragini interiori e che l’utilità della poesia, e dell’arte in genere, è forse quella di estrarci da questi buchi neri per uscire a riveder le stelle.