Da 5 Bloods – Come fratelli (qui il trailer) è il nuovo film di Netflix e Spike Lee (BlackKklansman), che ne cura regia, sceneggiatura e produzione. Il pretesto è il Vietnam, ma come aveva insegnato lo stesso Apocalypse Now, qui citato ripetutamente a livello esplicito e non, il Vietnam non è solo una guerra. È il sintomo della follia umana, piena di fantasmi nascosti nei meandri di una foresta umida e cruda. E con tale crudezza ha inizio il film stesso.
Nel 2001 Huberman pubblica Immagini malgrado tutto. Sebbene questo saggio tratti nello specifico di quei «brandelli di pellicola» strappati dai campi di concentramento, Huberman mostra anche il potere dell’immagine, in particolare di quella traumatica, già rilevata da Barthes e, inseguito, identificata da Ranciere come immagine nuda. Si tratta di immagini che, nel loro rapporto con la brutalità della storia, si lacerano, ma allo stesso tempo, come il volto di Medusa, attirano la nostra attenzione, permettendoci di affrontare la realtà “malgrado tutto”. Spike Lee, sia con l’intera sequenza iniziale, sia con continui rimandi all’interno dell’opera, aderisce a questo principio.
Lo spettatore, messo di fronte a questa realtà cruda e nuda, ha così la possibilità di riflettere sulla violenza umana, che lega “le minoranze” (afroamericani e vietnamiti) al di là del loro paese di origine e al di là dell’epoca storica d’appartenenza. Nel farlo, il film incorpora continui inserti video, fotografici e radiofonici, che si fondono con le immagini più finzionali, sottoposte, anch’esse, a continui cambi di formato (da 16:9 a 4:3) e di grana (dai colori saturi e pop del cinema contemporaneo, a quelli più “poetici” della pellicola). Si crea così un pastiche tra immagini documentarie, immagini diegetiche del passato e quelle del presente, bombardando lo spettatore di informazioni, di flash e di traumi. In questo mix, a intrecciarsi sono soprattutto passato e presente, sia a livello narrativo che documentaristico. A emergere sono le idiosincrasie di una violenza legata alla ricerca costante di diritti. Di diritti promessi, ma sempre negati.
Nel 1964 viene pubblicato It Ain’t me Babe, interpretato e scritto dallo stesso Bob Dylan. Sebbene non sia presente all’interno di Da 5 Bloods, il suo significato permea l’intero senso del film stesso. Secondo alcune interpretazioni, infatti, la canzone di Bob Dylan non descrive una malinconica storia d’amore finita, ma la stessa guerra in Vietnam e la sua insensatezza. In particolare, emerge il rifiuto di lottare per qualcosa che non appartiene ai propri ideali («Someone […] to protect you and defend you whether you are wright or wrong»). Anche in Da 5 Bloods, sia i monologhi storici (l’inserto di Malcom X), sia diegetici (il discorso con sguardo in macchina di Paul), che quelli a metà tra finzione e realtà (il messaggio della stazione radiofonica del Vietnam Democratico) mostrano come gli afroamericani abbiano sempre lottato per gli USA, per il loro paese, ma per una guerra che non era la loro e per la quale non hanno ottenuto ciò che chiedevano, in un ripetersi continuo della storia.
Un ripetersi della storia che giunge fino allo slogan trumpiano “Make America Great Again”, che rappresenta il centro dell’intero ragionamento portato avanti da Spike Lee. Il regista, infatti, vuole portare lo spettatore a riflettere sul significato stesso di questa retorica, basata soprattutto sulle atroci violenze commesse dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, tuttavia, tali immagini e tali discorsi vengono affiancati dalla figura di Norman, alterego cinematografico di Martin Luther King. Spike Lee vuole dunque credere in un “Make America Great Again”, ma in un’altra ottica: quella di un ritorno alla consapevolezza dei propri diritti e della propria storia. Quella consapevolezza a cui facevano richiamo sia Malcom X, sia Martin Luther King, non a caso posti all’inizio e alla fine dell’intero film, nella creazione di un nuovo messaggio.
In conclusione, Da 5 Bloods è un’opera che, tramite il funzionamento dei meccanismi legati all’immagine e alla comunicazione audiovisiva, vuole far riflettere lo spettatore. Lo vuole trasportare, attraverso una struttura pop e postmoderna, in una nuova consapevolezza. Spike Lee, quindi, ragiona sulla potenza delle immagini non per “rendere di nuovo l’America grande”, ma «to save the soul of America».