19 ottobre 2019: veniva presentato alla 14ª edizione del Roma Film Festival un film dal titolo The Farewell – Una bugia buona (trailer). Nato come produzione americana ma girato prevalentemente in Cina, ha come protagonista una giovane cinese, Billie, cresciuta per la maggior parte della sua vita in America, che si trova davanti ad una scelta che la metterà in crisi. Scopre, infatti, che la sua adorata nonnina è allo stadio terminale di un cancro ai polmoni. Potrebbe perciò morire di lì a poco, ma a peggiorare la situazione c’è il fatto che ne è totalmente ignara. Nai Nai (questo il nome della nonna) crede di essere perfettamente in salute, e non capisce come mai tutti i suoi parenti siano così preoccupati per lei. Mentre Billie è costantemente in bilico tra l’istinto di dirle tutto e il volere della sua famiglia di tacerle una verità che potrebbe farle più male che bene. Perché c’è un detto, nella cultura cinese: non è la malattia ad uccidere il malato, ma il dolore nell’apprenderlo.
The Farewell – La perfetta integrazione
Lasciando da parte le numerose tematiche personali che Lulu Wang mette in ballo nel suo lungometraggio, con elementi dichiaratamente autobiografici, uno degli aspetti a risaltare è il rapporto che Billie ha con la sua identità. È una ragazza cresciuta in America, perciò ha fatto suoi costumi, pensiero e persino paure proprie di quell’immaginario. Ma le sue radici sono cinesi, e lo ha ben presente durante tutto il film.
Quando va in Cina per assistere al matrimonio del cugino, mera scusa per riunire la famiglia per quella che tutti credono essere, probabilmente, l’ultima volta, si scontra con gli usi e la mentalità propri di una cultura che ormai ha dimenticato. Nello stesso tempo ne prova nostalgia ed esprime il desiderio di rimanere lì ad assistere la nonna quando gli altri saranno tornati alla loro nuova casa, nonostante questo la porterebbe a rinunciare a molti dei sogni che stava coltivando.
Si assiste, così, a un movimento idealmente circolare, di allontanamento dal punto di origine e ritorno. Billie, infatti, nel momento di consapevolezza finale della sua identità, riuscirà ad integrare la sua formazione occidentale con l’eredità orientale lasciatale dalla famiglia. Un perfetto punto d’incontro tra due mondi che così poco sanno l’uno dell’altro.
Ribellarsi alla propria cultura
Se Lulu Wang ha potuto descrivere un mondo in cui cultura occidentale e orientale riescono ad andare d’accordo è perché ha vissuto in un’epoca maturata nella globalizzazione.
Lo stesso non si può dire di Songlian (Gong Li), protagonista del film del 1991 di Zhāng Yìmóu Lanterne Rosse (monologo iniziale). Lei è una giovane di buona cultura, con la sfortuna di vivere in un periodo totalmente in contrasto con le sue idee. La storia è ambientata, infatti, nel 1920, quando la prospettiva più rosea per una ragazza cinese era diventare una delle mogli di un ricco signore, discendente di una qualche dinastia. Songlian sogna, invece, lo studio e l’emancipazione, caratteri tipici di una nuova cultura che in occidente si stava già affermando. C’è perciò una nota di profonda ribellione verso la propria tradizione, che disegna un movimento che dall’oriente si protende verso il modello occidentale.
D’altra parte, Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica avevano preceduto Yìmóu di circa 90 anni, da un certo punto di vista. Nella famosa opera Madama Butterfly, ambientata agli inizi del XX secolo, la protagonista, Cho Cho-San, è una giovane geisha che sposa l’americano Pinkerton, ufficiale della marina militare in trasferta a Nagasaki, in Giappone. Per poter conseguire il matrimonio Cho Cho-San ha dovuto rinunciare al suo nome e alla sua religione, con la conseguenza di essere diseredata dallo zio bonzo. Nonostante tutto, ciò non rappresenta affatto un deterrente per la ragazza, che ama la cultura americana a tal punto da rinnegare a cuor leggero la sua.
L’ultimo Samurai – La conversione di un occidentale
Esiste un corrispettivo ritorno di questo movimento, ossia che dall’occidente si protende verso l’oriente. L’esempio è dato perfettamente da Nathan Algren (Tom Cruise), ex-capitano dell’esercito statunitense di fine 1800 in L’ultimo Samurai (2003), di Edward Zwick (Blood Diamond – Diamanti di sangue, Vento di passioni).
In un contesto di scontro tra la cultura millenaria giapponese e l’ondata di modernità rappresentata dall’occidentalizzazione, si presentano al contempo più scenari. Il giovane imperatore, reduce da una rigida educazione tradizionale, favorisce il cambiamento e incarica Nathan di addestrare il suo esercito con l’intento di eliminare i samurai ribelli. In seguito a una sconfitta sul campo, il capo dei samurai, Katsumoto (Ken Watanabe), fa prigioniero Nathan e lo porta al proprio villaggio. Qui avviene un rovesciamento delle prospettive: Katsumoto rivela a Nathan la grande curiosità che nutre nei confronti della cultura americana, mentre Nathan conosce sempre più a fondo la realtà dei samurai, sposandone gli ideali. Infine, nonostante la sconfitta finale dei samurai e la morte del loro capo, l’imperatore deciderà di preservare la tradizione del suo popolo, rinunciando agli accordi con il governo americano.
Vi è qui non solo un immaginario fondato sul ritorno alle origini, quanto un’affermazione della nuova identità di Nathan, che deciderà di abbandonare totalmente la sua vecchia vita.
Anna and the King – La lotta tra due identità
Nella vasta filmografia che riguarda l’incontro tra Oriente e Occidente non si assiste sempre ad una crisi identitaria o ad un’unione totalitaria. C’è un caso in cui la scissione tra la cultura inglese e quella del Sud-Est asiatico (Siam) collaborano per poi dividersi nuovamente. È la storia di Anna and the King (1999), di Andy Tennant (Hitch – Lui si che capisce le donne), con Jodie Foster e Chow Yun-Fat, ispirata liberamente alla figura realmente esistita di Anna Leonowens, educatrice dei figli del re del Siam Mongkut dal 1862 al 1868.
Al centro del film ci sono la cultura e le tradizioni del Siam, patrimonio che il re Mongkut tenta in tutti i modi di preservare. Al contempo auspica una modernizzazione che possa ostacolare la colonizzazione. Come contesto politico vi è, infine, la minaccia di un colpo di stato da parte dei soldati birmani. Questo è il quadro in cui si inserisce la figura di Anna, una giovane insegnante inglese chiamata ad occuparsi dell’educazione dei 68 figli del re.
Ma il periodo trascorso in quella terra tanto differente dalla sua si rivelerà difficile: come spesso succede, le usanze di una diversa cultura possono risultare incomprensibili ad occhi estranei. Tanto da impedirne la completa integrazione, o anche solo una convivenza o un adattamento. Ad esempio, Anna non riuscirà ad accettare la poligamia del re, incompatibile con la sua visione del matrimonio. Oppure, la condanna a morte di una ragazza, promessa del re, colpevole di tradimento poiché non desiderava l’unione che le era stata imposta e precedentemente innamorata di un monaco. Per quanto nel film si disegni una storia d’amore tra Anna e il re, infatti, le distanze tra loro risulteranno incolmabili. Entrambi saranno motivo di crescita personale l’uno per l’altro, e la loro collaborazione porterà il re a prevalere nello scontro finale. Ma Anna deciderà di tornare in Inghilterra, pur avendo cambiato ormai irreversibilmente la vita e i punti di vista del re e di chi era venuto in contatto con lei.
Memorie di una Geisha – Un caso di mis-cultura
Uno dei film che ha fatto immergere di più nella cultura orientale, nel caso specifico quella giapponese, è Memorie di una Geisha (2005), di Bob Marshall (Chicago, Nine). Vincitore di 3 premi Oscar (Fotografia, Scenografia e Costumi), racconta da un punto di vista interno la crescita e l’istruzione di una giovane per diventare una vera Geisha, tra tradimenti e amori proibiti.
Nato da un adattamento dell’omonimo libro di Arthur Golden, la storia è tratta dalla vita della Geisha realmente esistita Mineko Iwasaki. Ma non solo la Iwasaki fece causa allo scrittore, in quanto citandola nei ringraziamenti aveva violato l’anonimato stabilito nell’accordo contrattuale. Golden fu, inoltre, accusato da lei di aver completamente travisato uno dei riti fondamentali nel passaggio da maiko a geisha, il “mizuage”. Infatti, nel film consiste nella vendita al miglior offerente della verginità della ragazza, mentre in realtà ciò è vero solo per un altro tipo di figura, la “oiran”. La confusione tra elementi propri di una cultura cui non si appartiene, specie se in un prodotto mediatico tanto potente come la cinematografia, è molto pericolosa, soprattutto per l’opinione che inevitabilmente si crea attorno alle figure di cui si parla.
Gongfu – La cultura delle arti marziali come elemento di unione
Un genere particolarmente prolifico negli anni ’80 fu la commedia d’azione. Tutti hanno visto almeno una volta dei film con protagonista la coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill, pseudonimi di Carlo Pedersoli e Mario Girotti, come … Altrimenti ci arrabbiamo (Marcello Fondato) o Lo chiamavano Trinità (E. B. Clucher, pseudonimo di Enzo Barboni). Film in cui non poteva mancare la scazzottata con panche che si rompono contro le schiene degli avversari, pugni e cadute rovinose dai banconi. Ma anche film come la serie dei Rocky (John Guilbert Avildsen) con Sylvester Stallone, che raccontavano un po’ il mondo del pugilato, o i classici film di Arnold Schwarzenegger.
Un genere analogo si era già affermato dall’altra parte del Globo: il Gongfu. Al posto di pugni e calci metteva in scena le arti marziali, con le movenze di attori del calibro di Bruce Lee, Jackie Chan o Jet Li. Alcuni dei titoli sono diventati dei cult in tutto il Mondo: si pensi a Dalla Cina con furore (Wei Lo), Drunken Master (Woo-Ping Yuen) o I giganti del Karaté (Cheh Chang).
Naturalmente anche in Occidente alcuni nomi si fecero strada in questo nuovo genere. È il caso, ad esempio, di Chuck Norris, che debuttò grazie a L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente e alla collaborazione con il regista, sceneggiatore e produttore Bruce Lee. Ancora di più Jean-Claude Van Damme o Steven Seagal, veri e propri pilastri del gonfu occidentale. Ma una fortissima spinta la diede anche la serie The Karate Kid (John Guilbert Avildsen per quanto riguarda i primi tre), che accomunarono i giovani grazie alla filosofia delle arti marziali orientali.
Wŭxiá – Tra storia e leggenda
Uno dei generi che riscuote complessivamente la maggior parte dei consensi è il “cappa e spada”. Comprende storie di nobili cavalieri, gentili dame e fantastici duelli a suon di spada ambientate in epoche lontane, che possono andare dal Medioevo al ‘600-‘700 e ha come fonte principale la letteratura. Uno tra gli esempi più famosi è I tre Moschettieri di Alexandre Dumas, che ha avuto numerosissime trasposizioni sia cinematografiche che teatrali.
È stato considerato da molti un genere parallelo il cinese Wŭxiá: le storie raccontate riguardano principalmente la Cina imperiale precedente all’anno 1000 a.C. e, come cinematografia, arrivò in Occidente mascherato da gongfu. Infatti, parte integrante della narrazione sono epici scontri e tecniche spettacolari di arti marziali. I titoli più famosi sono stati prodotti negli anni 2000, in seguito a un rinnovamento del filone, e protagonista indiscusso fu Zhāng Yìmóu. Suoi sono, infatti, lungometraggi passati alla storia come La Città Proibita (con Gong Li e Chow Yun-Fat), Hero (con Jet Li) e La Foresta dei Pugnali Volanti (con Zhāng Zĭyí). Vincitore di ben 4 premi Oscar fu, inoltre, La Tigre e il Dragone (Ang Lee).
Manga, Anime e animazione nella cultura globale
La vastissima produzione cinematografica che riguarda la cultura asiatica ha portato a conoscenza del pubblico buona parte di tradizioni e storia che altrimenti sarebbero state privilegio di pochi. Ma, in ogni caso, raggiunge la fetta di cinefili appassionati che, soprattutto oggi, difficilmente racchiude in pieno le nuove generazioni. Fortunatamente esiste un media che, al posto del cinema, spopola tra i più giovani: il Manga, fumetti giapponesi spesso, se non sempre, basi delle trasposizioni televisive rappresentate dagli Anime. Gli esempi abbondano e sono più che noti: One Piece, Naruto, Death Note, Detective Conan… La lista è fin troppo lunga ed è in continua espansione. Queste serie hanno portato a conoscere molto della cultura giapponese contemporanea, come la divisione in distretti di Tokio, persino il sistema scolastico giapponese. Usanze e tradizioni che non si sono perse nel tempo e che, così, perdurano anche sugli schermi televisivi.
Naturalmente non manca la produzione di lungometraggi d’animazione ispirati a manga e anime. In questo caso non si può non nominare lo Studio Ghibli, casa di produzione giapponese nota particolarmente per la collaborazione con il regista Hayao Miyazaki (La Città Incantata, Il Castello errante di Howl).
Anche dal versante occidentale si hanno numerosi esempi di film d’animazione riguardanti la cultura asiatica. Della tradizione si ricorda Mulan, di Walt Disney, tratta dalle storie popolari cinesi. Più da vicino, invece, si può analizzare il caso della serie di Kung Fu Panda, di Mark Osborne e John Stevenson.