Conversazione con Aura Ghezzi e alessandro gagliardo su Gli ultimi giorni dell’umanità

intervista a aura ghezzi e alessandro gagliardo sul film diretto da gagliardo e enrico ghezzi Gli ultimi giorni dell'umanità

Raccontare un (non) film come Gli ultimi giorni dell’umanità (trailer) è difficile. Così come è difficile capire ciò che si prova una volta usciti dalla sala, dopo aver assistito allo svelamento di fronte ai nostri occhi di un archivio come quello di enrico ghezzi: un’opera che guarda e si fa guardare dallo spettatore, che lo ricolloca in uno spazio altro. Ringraziamo ancora una volta Aura e alessandro per averci concesso questa chiacchierata sul making of del film, su una realtà come malastrada film e sul prossimo progetto curato da alessandro ed enrico, Una volta era a fuoco.

Sulla scheda che possiamo trovare sul sito di produzioni dal basso – punto di partenza della raccolta fondi – leggiamo delle cifre impressionanti sull’archivio personale di Enrico ghezzi: trentacinque anni di riprese e cinquecento nastri per settecento ore di girato. Quale è stata però la scintilla che ha dato il via al progetto, che come lo ha poi definito Martone, per voi lo ha reso necessario?

alessandro: Ad ogni modo, si sono incontrate due volontà: la mia e di enrico. La prima scintilla arriva da una chiamata, dove mi veniva chiesto se volessi montare un progetto – Luce in macchina – avviato da enrico molti anni prima, sull’archivio dell’Istituto Luce, alla ricerca di immagini dove le persone filmate posavano lo sguardo in macchina. Ci ho pensato per circa settantadue ore e poi ho detto ad enrico: «Proviamo a partire dal tuo archivio personale». Dopo qualche giorno, a Roma, abbiamo iniziato a montare. Fondamentalmente a produrre scintille, perché non abbiamo mai avuto uno spazio in cui fosse assolutamente definito quello che stavamo facendo, in termini di forma filmica. Stavamo compiendo una piccola impresa, ma allo stesso tempo grande.

È stato quello il primo momento in cui sei entrato in contatto con enrico?

alessandro: No, ci sono stati prima degli altri passaggi. Fuori Orario nel 2012 voleva comprare un film che avevo realizzato con malastrada, ma in quella occasione rifiutammo l’offerta, perché stavamo lavorando sulla logica dello strappo alla narrazione televisiva – la possibilità di pensare le forme cinematografiche come forme di palinsesto. L’invito di Fuori Orario è parso, quindi, come un’occasione per mercanteggiare la possibilità di giocare con la fascia oraria notturna del programma, in termini di montaggio. Ci fu un altro incontro a Roma, a via Teulada, dove aveva l’ufficio enrico in RAI: in quel momento siamo arrivati alla possibilità di montare tre notti di Fuori orario, per un totale di 12 ore. Ci abbiamo lavorato due anni, ma per vari problemi quella cosa non si concretizzò mai. Il nostro rapporto, comunque, è nato nel 2011, quando con Maria Hélène Bertino e Dario Castelli abbiamo realizzato Un mito antropologico televisivo, il film sopracitato; nel 2014 invitammo enrico alla prima e unica edizione del Festival Internazionale dell’Archivio, che si è svolta a Paternò. Da quell’anno ci siamo inseguiti via e-mail, seguendo il corso di queste tre puntate mai trasmesse su Fuori Orario. Insomma, dopo questo primo “inabissamento” c’è stata una pausa di cinque-sei anni, e poi la riemersione con il discorso di Luce in macchina, che ha portato a Gli ultimi giorni dell’umanità.

I contrasti tra le immagini girate da Enrico in casa e le altre immagini trovano un punto di incontro forse nelle parole di Kafka (ma anche quelle di Jose Val del Omar) pronunciate da Aura. Quando avete deciso di girare quelle immagini?

Aura: La scelta di girare quel materiale avviene perché tra le varie indicazioni date dal babbo c’era quella di includere assolutamente Kafka. Parlando, il babbo e alessandro, hanno tirato fuori tutti quei frammenti che lui ha sempre citato nei suoi scritti: da quelli presenti nel film a Il cruccio del padre di famiglia e Josefine la cantante. Ci eravamo appena conosciuti con alessandro, loro avevano appena iniziato a lavorare, e lui ha pensato che potessi interpretarle io quelle scene, e il babbo fu subito d’accordo. All’inizio non ero molto convinta di poterlo fare. alessandro ricorda che gli ho detto che sarebbe stata “l’ennesima cosa che non avevo scelto di fare”, e lui ha proposto di fare in modo che non fosse così. Abbiamo fatto una ricerca “viva”: tra il testo, me, la telecamera, il babbo…Quello che c’è nel film è parte di una ricerca su questi testi, dove abbiamo inseguito una partecipazione attiva da parte mia.

alessandro: Tutto vero. Mi incuriosiva la tua lettura su Kafka e Val del Omar come “punto di incontro”. È interessante, perché in un certo senso la dimensione che Kafka dà nei racconti che interpreta Aura è molto legata al tempo. Nello stesso momento, la presenza di Aura è anche un punto di incontro con tutto ciò che abbiamo lavorato e ciò che stavamo facendo. È un punto di presente che stabilisce una “boa”; che rompe, in un certo senso, con quell’altra cosa che dice enrico a inizio film – il movimento “impossibile” che gioca la malinconia. Kafka, la presenza di Aura e anche la poesia di Val del Omar, per certi versi, stabiliscono questo incontro tra una dimensione che non si accascia e non si coccola, né in un passato definito né in un’idea di futuribilità; stabiliscono una dimensione abbastanza viva, come diceva Aura, e di ricerca, in cui le varie dimensioni del tempo collassano e si concretano. Il desiderio di diventare pellerossa è forse un po’ quella definizione che il film non si è mai data.

intervista a aura ghezzi e alessandro gagliardo sul film diretto da gagliardo e enrico ghezzi Gli ultimi giorni dell'umanità

Aura, com’è stato rivederti nelle immagini degli archivi e recitare quelle scene, in generale vivere questa esperienza?

Aura: Quello che abbiamo girato, soprattutto il “giro finale” – quattro primi piani che compongono un giro di trecentosessanta gradi intorno a me -, ha per me, come attrice, molto a che fare con quello che ho visto attraverso l’archivio che è stato creato. Chiaramente, “com’è stato per me” è una questione personale che mi riguarda da vicino. Però un modo di viverle quelle immagini è entrato poi nel film. Io ho dovuto rivedere gran parte questo girato che mi riguardava, e da lì sono partita rispetto al modo in cui avevo pensato di interagire con i testi di Kafka. Quando abbiamo ripreso quella sequenza pensavo concretamente a quello che avevo visto, al fatto di aver rivisto la mia vita.

Personalmente quel momento è stato uno di quelli che mi ha coinvolto di più, uno dei più toccanti.

alessandro: è un momento molto vero. Un ulteriore dettaglio: quando abbiamo costruito quella scena, in alcuni giorni di lavoro a Napoli, Aura, da attrice, mi ha chiesto: «L’intensità di questo primo piano qual è?». Allora quello che abbiamo fatto – ritornando al lavoro preparatorio, quando nel febbraio 2020 abbiamo avuto occasione con Aura di conoscerci meglio – è stato quello di ripensare agli studi sullo sguardo in camera. Lavoro che poi abbiamo sviluppato di pari passo alla ricerca di enrico, ovvero quella volontà – molto nascosta ma sempre emergente del film – di fare in modo che il cinema possa essere la cosa che ti guarda. Fatta questa premessa, quando Aura mi chiedeva come rendere questa intensità, abbiamo pensato che questo giro potesse essere l’occasione per rivedere, certo in silenzio, nella mente, tutto ciò che avevamo riguardato, trovato, scoperto nell’archivio. È veramente straordinario che la prima inquadratura, frontale, sia un piano molto commosso, e poi all’interno dei trecentosessanta gradi – che se vuoi è un po’ anche il giro che fa la vita, il “giro di boa” che stavamo facendo in quel momento lì – finisce con un’espressione molto serena, in cui il sogno viene proclamato finito. Riguardo quello che diceva prima Aura, io all’interno di quella scena ci vedo una parabola – che si chiude con l’ultimo sguardo di Aura che conclude il film –, un’autodeterminazione della persona, che sceglie di fare una cosa e come viverla, fino a trasformarsi e rendere possibile il compimento di questo movimento, impossibile da concettualizzare. Però con un’adesione, se vuoi relazionale e basata sullo scambio in cui i sentimenti e la cura delicata non viene a mancare, il processo di autodeterminazione si può creare, a tal punto che la persona osservata dalla camera inizia a guardare chi guarda. E quindi l’ultimo primo piano, con la sovrapposizione di Aura – che dà il là ad un’immagine di lei da piccola -, conclude questo processo di autodeterminazione dello sguardo. Quel momento rotativo è come una porta scorrevole che ha lo sbocco verso un’altra dimensione dell’esistenza di chi è visto e di chi inizia a guardare.

Effettivamente, da spettatore, ti senti osservato. Senti di testimoniare una legittimazione del tuo ruolo di spettatore attivo all’interno della visione. D’altronde nel film si parla di sguardo, di cecità, di un’esperienza del cinema che si confonde con la vita.

Il film è stato definito in vari modi: da (non) film a cine-cosa, come possiamo leggere sul sito di Matango.tv. È qualcosa che cresce all’interno dello spettatore e probabilmente trova un suo senso solo molto tempo dopo la visione del film. Qualcosa che la presentazione su Fuori Orario di Let’s Fog ha arricchito. In prossimità della messa in onda televisiva, avete in mente di mostrarci altro materiale?

alessandro: Let’s Fog determina qualcosa di nuovo. È un tipo di approccio diverso rispetto a Gli ultimi giorni dell’umanità e mette in gioco una possibilità che io definisco “slabbrata”, tendente quasi all’effimero. Rispetto al principio della contemplazione, si mette in una relazione non enunciata. All’interno de Gli ultimi giorni dell’umanità possiamo vedere un intervento straordinario di Jean-Marie Straub proprio sulla contemplazione e sulla possibilità di vedere qualcosa. Let’s Fog inizia questa contemplazione, con ritmi lenti e adagiati, e ha avuto un effetto di restituire una richiesta in maniera più conclamata rispetto al film: “Dov’è il resto?”. O anche: “perché finisce?”. Let’s Fog, in un certo senso, dà il via a un nuovo progetto sul quale stiamo lavorando, Una volta era a fuoco. Questo titolo riprende proprio una delle frasi che a sua volta citava Straub in quell’intervento dedicato a Cézanne, quando ricorda il lavoro di osservazione del pittore della montagna Sainte-Victoire: ”Guardate quella montagna, una volta era a fuoco”. A discapito del “film-summa”, quale potrebbe essere Gli ultimi giorni dell’umanità, si è aperta una strada che può essere mantenuta, dietro questi cardini della contemplazione e la capacità di mantenere lo sguardo allenato. La possibilità di osservare una cosa da più punti di vista, a partire da tutto il materiale che abbiamo archiviato, filmato e raccolta, è sicuramente qualcosa che può essere messo in visione. Un ragazzo che ho conosciuto da poco mi ha detto: «Alessandro, Let’s Fog era il metadone, ora quando arriva il resto? »

Alessandro, nei titoli di coda possiamo anche leggere i nomi di Maria Hélène Bertino e Dario Castelli. Quanto ha contato per te l’esperienza di malastrada film e di Un mito antropologico televisivo?

alessandro: Dario e Maria per me sono come fratello e sorella. Senza questa logica di fratellanza, anti-produttiva delle volte, malastrada film non esisterebbe. L’apporto di persone carissime, intellettivamente e affettivamente, sono anche la discriminante della capacità di affrontare qualcosa, con coraggio. Ma anche Aura, Nennella Bonaiuto, Olimpia Perucci e il produttore Gabriele Monaco mi hanno dato tantissimo coraggio. malastrada ha sempre concepito il benessere della persona come punto cardine prima di tutto quanto il resto. E questo è un principio che abbiamo sperimentato, tutelato e dovuto difendere. La maniera in cui facciamo le cose ha permesso di creare delle relazioni, delle forme di ingaggio rispetto all’impresa che ogni volta ci prestavamo a compiere, senza mai produrre menzogne. Abbiamo sempre potuto contare su una verità, quella che abbiamo vissuto, che ci ha permesso anche nell’errore di capire dove sbagliavamo. Questo è stato anche possibile grazie alle persone straordinarie che abbiamo incontrato. enrico è stato un ottimo nostromo in tutto questo, riuscendo a favorire lo sviluppo di un ambiente anti-gerarchico, privo dell’esercizio di potere. Quando c’è un’assenza di potere è più facile che le relazioni umane si sviluppino in termini proficui, armoniosi. malastrada film lavora, non-lavora, sabota il suo lavoro così dal 2005. Proprio per questo nei titoli di coda c’è scritto “dai sussulti…” e non altro. I sussulti sono quello spazio in cui apri gli occhi, li strabuzzi, perché hai capito qualcosa di importante. E per capire qualcosa di importante c’è spesso il bisogno di qualcuno con il quale capirlo, per evitare che sia solo una verità singolare. Ecco, questo è l’apporto di malastrada film all’interno di questa vicenda.

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