Il più grande banco di prova per un cineasta è la sua opera seconda. Se l’esordio di Yann Demange nel 2014 con 71 aveva significato il debutto nel cinema britannico di un autore alle prese con un avvincente film di guerra, ora con Cocaine – La vera storia di White Boy Rick (trailer), il suo secondo esordio, quello Hollywoodiano, lo attende l’arduo compito di riconfermarsi.
La vicenda si colloca tra il 1984 e il 1987, nei quartieri poveri di Detroit e racconta l’ascesa e il declino del giovane spacciatore Richard Wershe Jr. (Richie Merritt), un adolescente costretto a diventare subito adulto che vive con suo padre Richard Wershe Sr. (Matthew McConaughey), un piccolo trafficante di armi, accecato dalla voglia di rivalsa sociale da quando la moglie e la figlia se ne sono andate di casa. Ricattato dall’FBI, che ha le prove per incriminare il padre, Rick diventa il più giovane informatore di sempre dei federali, ma si ritroverà presto solo, facendosi strada nell’ambiente criminale di Detroit popolato dai neri, che lo ribattezza “White boy Rick”. L’ambientazione e il contesto sociale evocano una storia, in termini pasoliniani, di poveri cristi, personaggi sconfitti dalla vita o vinti prematuramente dal destino, pedine di un gioco subdolo ben più grande di loro, capace di adescarli per poi sbarazzarsene.
Nel raccontare questo evento reale, Demange preferisce adottare uno stile di messinscena convenzionale piuttosto che un taglio documentaristico e forse è proprio in questo che risiede il limite della pellicola. L’eccessiva convenzionalità dello script fa del film un’opera che non osa mai fino in fondo, almeno rispetto a quanto permetterebbero i presupposti iniziali (l’eccellenza del cast di supporto e i diversi spunti di riflessione a cui si presta il contesto socio-politico dell’America Reaganiana), rimanendo sempre in superficie: ancorata agli archetipi di un genere di cui l’industria hollywoodiana è ormai ricolma, portando in scena personaggi poco sfumati, talvolta sfuggevoli nella loro psicologia.
La staticità della regia gioca a spese della forza emotiva. L’istanza narrante si riscatta parzialmente nelle inquadrature dell’unico personaggio a cui lo spettatore riesce ad affezionarsi davvero, quello del padre, interpretato da un Matthew McConaughey in stato di grazia, che sovrasta il promettente seppur acerbo Richie Merritt. Richard Wershe Senior è un padre che soffre tanto quanto ama, sempre a stretto contatto con le sue fragilità e i suoi sogni, ma è soprattutto il personaggio che si fa promotore di un gioco cinefilo ben esibito. Sogna di aprire una videoteca e il suo spirito cinefilo viene reiterato nel fatto di essere continuamente uno spettatore della frenetica vita dei figli, fatta di azioni e meccanismi di causa-effetto come nella più classica delle sceneggiature.
Richard si divincola dalla dimensione spettatoriale solo quando prova a ricostruire il rapporto fatto di silenzi con la figlia tossicodipendente Dawn (Bel Powley); portando la televisione nella sua stanza le consegna la condizione di spettatrice anni Ottanta, quando l’esperienza cinematografica viene veicolata attraverso il medium televisione. Ma nel film la solidità familiare viene continuamente minata dalle istituzioni. Agli occhi di Rick e la sua famiglia il sogno americano caldeggiato da Reagan non è poi tanto luccicante, ma è un agglomerato arrugginito di desideri mutaformi e aspirazioni compromesse, profondamente legati alla cronaca di una realtà periferica dove il termine “scuola” non è altro che una nota a margine e il futuro bisogna costruirselo da autodidatti.
Nonostante mantenga un ritmo complessivamente vivace, Cocaine – La vera storia di White Boy Rick sceglie di adagiarsi sulla sufficienza estetica e narrativa di una sceneggiatura che non si prende rischi, ma che non azzarda nemmeno particolari trovate in grado di elevare il film oltre il discreto crime movie.