1° maggio 1941. Nelle sale americane, per la prima volta, compare sui grandi schermi quello che è stato nel tempo giudicato dall’American Film Institute, la rivista cinematografica Sight & Sound e niente di meno che la BBC, come il miglior film statunitense di sempre: Citizen Kane. L’opera di esordio del regista Orson Welles alla sua 80° ricorrenza annuale è, ancora come allora, fulcro centrale delle più importanti riflessioni di analisi delle teorie e della storia del cinema tutto che si interrogano, da anni, sulle modalità con cui un film di tale complessità testuale e semantica si sia stagliato nel panorama hollywoodiano degli anni ’40 con gli annessi connotati che esso si porta dietro. Obiettivo primario della nostra riflessione, quindi, è tentare di porre l’attenzione sulle diverse influenze che la pellicola ha suscitato nello stesso modo di pensare (e fare) cinema da quel momento in poi: un modo nuovo, inconsueto, rivoluzionario, sovvertivo e completamente moderno.
“Solo una persona può decidere il mio destino, e quella persona sono io.”
Charles Foster Kane (Orson Welles)
Prima di procedere ad un’analisi tecnico-artistica delle componenti che hanno reso possibilie una tale sovversione, è doveroso quantomeno accennare all’enormità di carisma evocata dalla personalità di Welles, senza cui oggi non sarebbe possibile alcun tipo di riflessione come quella che ci aggingiamo a fare in quanto non esisterebbe, con grosse probabilità, un prodotto lontanamente paragonabile al film preso in esame. Il 21 agosto 1939, un poco più che ventenne Orson Welles sottoscrive con la RKO uno dei più vantaggiosi contratti mai offerti da uno Studio fino a quel momento: questo, con un incasso previsto di 50.000 dollari immediati, gli avrebbe permesso, nelle vesti di attore, regista, produttore e sceneggiatore, di dar vita a ben tre opere cinematografiche di cui il cineasta avrebbe avuto assoluta libertà artistica, evitando quindi di sottostare ai consueti vincoli ferrei che le case produzione dell’epoca imponevano ai registi, nell’ottica di un sistema cinematografico industriale ben serrato come quello dell’integrazione verticale dello studio system della Hollywood classica. Notiamo bene, dunque, come già a monte del processo produttivo ci fossero dinamiche tanto potenti e innovative che non lasciarono spazio all’invidia e critiche di molti. Ma andiamo per gradi.
Ora che nel testo sono emersi entrambi i termini presenti nel binomio classico-moderno, risulta ancora più evidente come invero la modernità di Citizen Kane si esplica e risiede in un rovesciamento di quelle strutture stilistiche e tematiche che caratterizzavano la Hollywood degli anni ’40: campi e controcampi, inquadrature a 180°, invisibiltà della macchina da presa e del montaggio, visione passiva dello spettatore, scrittura filmica di una certa rigidità sono solo degli esempi di quella cifra stilistica classica a cui facciamo riferimento e di cui in Citizen Kane assistiamo alla totale rinnegazione. Con una sola parola, potremmo tradurre l’intera poetica che si erge alle spalle dell’opera, con “eccedenza”.
Ecco quindi che l’eccesso stilistico del film si manifesta con una preponderante modalità registica che chiede di essere notata, con una marcata visibilità della mdp che rompe la trasparenza classica e il découpage convenzionale. Questa violenta opposizione ai canoni in vigore dell’epoca vanno praticamente ad abbattere un’ortodossia di organicità in favore di un realismo senza precedenti che porta Citizen Kane a (auto)proclamarsi il film-manifesto di tutti quelli espedienti quali la profondità di campo e il pianosequenza. E non solo: è proprio in questa sede che le più importanti teorie sul montaggio moderno entrano a piede saldo nella costruzione filmica. In un’ottica prevalentemente ejzenstaniana, è tramite codesto strumento che si concretizza una scomposizione e frammentazione della messa in scena che sarà ricomposta, secondo precisi percorsi interpretativi in cui lo spettatore avrà immensa responsabilità assemblativa insieme all’unica vera protagonista del discorso filmico: l’istanza narrante.
Se, infatti, l’apparato tecnico propriamente relativo alla messa in scena e alla restituzione fisica delle immagini suscita non poche riflessioni nella mente dello spettatore rispetto alla dicotomia classico-moderno su cui stiamo ragionando, è la scrittura filmica a detenere una responsabilità maggiore. Per chiarire fin dall’inizio il focus dell’argomentazione, ricordiamo innanzitutto il criterio di costruzione di una narrazione prettamente classica che prevedeva una solita struttura in tre atti articolata in questo modo: inizio, svolgimento e fine. Ebbene, Citizen Kane, prevede quanto di più lontano c’è da quest’ultima classificazione. Per citare Borges nella recensione apparsa su “El Sun” nell’agosto del 1941, l’opera di Welles viene descritta come un “labirinto senza centro”, un “caos di apparenze” in cui la restituzione della narrazione avviene tramite una de-strutturazione della stessa e dei diversi approcci ad essa.
All’interno di questo simulacro, l’obiettivo (apparentemente) primario della storia, la ricerca del significato della parola “Rosebud”, e se vogliamo l’intera narrazione, vengono vanificati nello stesso raggiungimento di massimo culmine. Ecco quindi, che nessuno dei percorsi interpretativi proposti nella scrittura, entro cui l’instanza narrante muove liberamente i suoi passi in maniera assolutamente frammentaria, assume effettiva importanza. Non è Rosebud il fulcro della narrazione, non lo è la storia di Charles Foster Kane e la sua infanzia perduta e nemmeno la Storia, con la S maiuscola, del continente americano. Non lo è l’analisi spietata del mondo dell’editoria né tantomeno l’avida fame di potere. Ancor più non lo sono la morte, la corruzione morale e la perdita di innocenza. Nessuna delle micro-narrazioni nella loro individualità è la narrazione complessiva di Citizen Kane; è Citizen Kane, piuttosto, con un’istanza narrante che va oltre le logiche tecnico-artistiche-narrative concepibili fino a quel momento che si avvale di una serie di riferimenti interculturali per girare intorno a quel labirinto senza centro di cui parla Borges.
Sotto un punto di vista propriamente drammaturgico, il racconto nega imprescindibilmente la fabula, tramite un’impeccabile frammentazione cronologico-temporale di cui la sceneggiatura di Herman J. Mankiewicz (Mank) si serve. I diversi dispositivi testuali che l’istanza narrante sfrutta per restituire la storia cambiano radicalmente spostandosi di registro in registro in un loop continuo di auto-distruzione: il prologo iniziale viene annullato dall’espediente diegetico di un cinegiornale, che a sua volta verrà negato dall’avvio di un’inchiesta e i successivi numerosi flashback per poi tornare nuovamente in chiusura al livello di sceneggiatura utilizzato nel prologo senza narratori diegetici. Metaforicamente, l’istanza narrante attua un vero e proprio auto-sabotaggio di sé e dei micro-racconti che contiene, culminando con l’inutilità della sua stessa esistenza.
La nostra riflessione, notiamo, condurrebbe ad un’unica e amara conclusione: in questa seguente ottica di modernità reale e sovvertiva, tutto in Citizen Kane (e non solo, se volessimo esplorare territori filosofici più lontani) parrebbe quindi destinato a rimanere inaccessibile e il solo momento in cui lo spettatore ne ha piena consapevolezza è, drammaticamente, al suo epilogo. D’altronde, non possiamo negare di non essere stati preventivamente avvertiti dal “No Trespassing” che si erge all’ingresso di Xanadu; eppure, se solo non avessimo corso il rischio di accedere all’inaccessibile, la nostra riflessione probabilmente non esisterebbe, né oggi a 80 anni di distanza o anche più, né in un’ottica classica o moderna che sia.