È probabile che recentemente tutti voi, per puro caso, abbiate apprezzato film o serie tratte da videogiochi. Questo magari senza sapere, prima di schiacciare play, che si trattasse in effetti di un adattamento, di un cinegioco. Da Cyberpunk a Fallout, The Last of Us, Super Mario Bros – il Film, Detective Pikachu e tanti altri ancora. Dopo un decennio di dominio incontrastato dei cinecomics potremmo trovarci di fronte all’inizio di una nuova fase. Una moda nascente che sta venendo e sarà cavalcata sempre più spesso da molte più case di produzione. Almeno questo è quello che è lecito pensare di fronte alle dozzine di progetti annunciati che rientrano in questa categoria. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Trattare dell’intera storia degli adattamenti tra videogioco e film in realtà prenderebbe molto tempo. Tuttavia si può iniziare notando che solo recentemente c’è stato un indubbio cambio di rotta. Se infatti in passato c’era giusto un piccolo stuolo di appassionati a difendere con le unghie e con i denti i pochi film che uscivano tratti dai loro videogiochi preferiti (dai Tomb Raider con Angelina Jolie, Assassin’s Creed con Micheal Fassbender o allo strano caso del Prince of Persia – Le Sabbie del Tempo con Jake Gyllenhall), ora gli adattamenti di qualità (o comunque apprezzati da un pubblico più ampio) sono in costante crescita.
Quei film che anni fa erano considerati delle battaglie perse, come un Macchiavelli firmato da Renè Ferretti, appaiono una nuova frontiera per la narrazione nei film e le serie televisive. Ma come mai fino ad oggi il sentimento comune voleva gli adattamenti dei videogiochi essere relativamente pochi e per lo più altrettanto scadenti?
Spesso si fa risalire l’origine di questi prodotti sino agli anni 90. Nello specifico con il film che introdusse il grande pubblico ad una prima ondata di progetti cinegiocosi. Ovviamente, ad esempio, Super Mario Bros (1993). Da molti considerato un cult, basato su una delle mascotte videoludiche più famose di sempre: il baffuto idraulico italo-nippo-americano Mario Mario di casa Nintendo.
Negli anni dopo l’insuccesso commerciale del film e di quelli che lo hanno seguito ci si è spesso chiesti il motivo di quel fallimento. Le risposte plausibili sono tante. A partire dal fatto che, buona parte del film fosse “liberamente ispirato” al franchise di Mario. Proponendo una rivisitazione più adulta e steampunk di quello che in origine era una semplice fiaba per ragazzi. Col senno di poi una scelta coraggiosa e interessante ma forse troppo audace per le incredibili aspettative create attorno al film. Allo stesso tempo, obiettivamente parlando, il film soffrì di problemi produttivi e di una sceneggiatura abbastanza altalenante. Da qui il quadro clinico è piuttosto chiaro. Un film che sarebbe stato apprezzato decisamente di più se non avesse portato il nome di un franchise così rinomato.
Da allora è facile rivedere questo schema ripetersi inesorabile come un anatema in tanti altri film. Molti flop cineludici infatti hanno in comune la presenza di un regista o uno sceneggiatore incapace di capire esattamente come trasformare il materiale originale. Seguono spesso errori grossolani. Come inimicarsi i vecchi fan che si voleva invitare al cinema e confondere chi sarebbe stato introdotto al franchise durante la visione.
C’è anche un’altra obiezione, spesso avanzata dai detrattori di questo filone. La tendenza a scegliere, per essere adattati, i videogiochi più popolari del momento, non per forza quelli più adatti a essere trasposti su schermo. I più vecchi amanti del cinema trash conosceranno bene gli scempi cineludici firmati da Uwe Boll. Come la saga di Bloodrayne, o Far Cry, House of the Dead e Alone in the Dark). Adattamenti approssimativi partiti da videogiochi che una storia non la possedevano, o che mettevano più enfasi sull’azione frenetica o viscerale che sulla storia.
Si è spesso detto, nel caso dei film di Boll, che un creativo più talentuoso sarebbe stato capace di far comunque funzionare le premesse di questi progetti. Tuttavia è anche vero che tali fallimenti ci hanno portato a riconoscere una semplice verità. Il lavoro di trasposizione da videogioco a film non per forza è indolore. Dato il bisogno di avere una cognizione minima di ambo i media, delle loro differenze e dei punti di forza. Esattamente come, tranne rari casi, un romanzo trasposto al cinema non può sempre essere tradotto parola per parola in immagini. Chi gioca e vede film sa bene che c’è una profonda differenza tra “giocare” o “interpretare” un’azione durante un videogioco rispetto a vedere il protagonista di una storia agire senza il nostro apporto.
Già qui verrebbe naturale tirare delle conclusioni. Magari che il “facciamo un film tratto da un videogioco” non era certo la macchina sparasoldi che molti produttori parevano vedere all’epoca. La mancanza di un concept solido portava quasi sempre infatti ad un inesorabile autosabotaggio sin dalla pre-produzione.
Allo stesso modo, da quel fatidico 1993 sono in realtà usciti diversi cinegiochi di pregio. Anche se forse sono sempre rimasti in cerchie più ristrette rispetto ad un blockbuster per le sale. Basti citare Ace Attorney di Takashi Miike, Il Professor Layton e L’eterna Diva, i film del franchise dei Pokemon o l’italianissimo Metal Gear Solid: Philantropy.
Ma come detto prima, l’impressione di un cambio di tendenza è davvero recente. Tra chi si meraviglia che quel tale adattamento abbia avuto successo per un nuovo pubblico e chi spera che i propri ricordi d’infanzia, pad alla mano, possano avere una seconda vita attraverso un film o una serie tv. Siamo arrivati addirittura a veri esempi fruttuosi di crosspromotion tra i vari media. Operazioni capaci di riportare in vita videogiochi più anziani con intere frotte di nuovi giocatori galvanizzati dall’uscita di un nuovo film o una nuova serie televisiva. Un effetto normalmente riservato solo ai musicisti in erba all’uscita di un nuovo biopic musicale.
Questo è il caso del fortunato Cyberpunk: EdgeRunners di Netflix o del recentissimo Fallout di Prime Video. Oppure ancora l’insospettabile successo di Castlevania, o di Captain Laserhawk: A Blood Dragon Remix. Tutti prodotti, più o meno, universalmente ben recepiti e di successo. Quindi cosa è cambiato esattamente?
Che lezione i registi e sceneggiatori di oggi hanno imparato da quasi trent’anni di flop?
Ad esempio cosa differenzia Cyberpunk: Edgerunners da un Alone in the Dark di Uwe Boll? Sicuramente il primo mostra una tecnica ed un mestiere assai superiore (non che ci volesse tanto), attraverso le animazioni ed il dinamismo del celeberrimo Studio Trigger. D’altro canto, se l’opera di Boll era disorientante per i non fan ed un insulto per chi conosceva l’originale, Edgerunners è riuscito a bilanciare queste componenti in modo lodevole. Decidendo di non adattare forzatamente la storia del videogioco, ma al contrario creando un prodotto indipendente, una vicenda che condivide con l’originale solo l’ambientazione. Le vicissitudini di David Martinez, un giovane ragazzo che finisce per diventare uno Scarface di Al Paciniana memoria, sono quindi state usate come efficace testa d’ariete per far breccia nel cuore di chi, fino a qualche minuto prima non sapeva nemmeno cosa fosse un Cyberpunk.
Lo stesso approccio è stato usato per serie come Fallout. Invece di forzare o adattare una storia pre-esistente, decisione complicata quando il materiale originale si basa sulle scelte personali del giocatore, si è deciso di usare il famoso universo di Bethesda Studios come base per nuove storie, solo tangenzialmente collegate a quelle già conosciute dai fan.
Una strada diversa è stata scelta per The Last of Us, successo di culto marchiato HBO. Con ad oggi una sola stagione prodotta ed una seconda in arrivo, è apparente che la serie ha scelto un approccio del tutto opposto: raccontare nuovamente la storia del gioco traslandola direttamente su schermo con qualche modifica. Chi ha avuto modo di vedere la serie infatti, finita la visione, commenta con un «è la storia che conosco, ma diversa». Tralasciando infatti come l’opera originale avesse già di per sé un “gusto cinematografico”, il risultato è un mix di familiarità e novità capace di mettere d’accordo vecchi e nuovi fan. In tal senso sicuramente va citato che a capo del progetto, come ideatore, showrunner e sceneggiatore capeggiava il nome di Neil Druckmann, già direttore creativo del gioco originale. Non stupisce quindi questa continuità e coerenza tra i due media.
Un ultimo esempio, ancora più estremo dei precedenti è quello di Captain Laserhawk – A Blood Dragon Remix, senz’altro il più radicale visto finora. Captain Laserhawk infatti è un adattamento videoludico che non viene da un videogioco. Tralasciando infatti Far Cry – Blood Dragon, da cui prende più l’atmosfera e parte dell’estetica, la serie Netflix è da considerare come un prodotto completamente inedito che, però, ospita al suo interno un grosso numero di personaggi proveniente dai videogiochi della Ubisoft.
L’impressione è infatti di guardare un incredibile crossover scritto e diretto con la stessa perizia adoperata da Alan Moore per la sua graphic novel La Lega degli Uomini Straordinari (ovvero l’incontro tra diversi improbabili personaggi della letteratura inglese). Il risultato della visione è presto detto. Chi non conosce le saghe originali si gode il prodotto senza accusare alcuna mancanza o lacuna. I fan invece vengono costantemente messi alla berlina, di fronte a cambiamenti radicali che però, ragionandoci su, risultano nuovi, stranamente sensati e drammaticalmente coinvolgenti.
Quindi cosa è cambiato in tutto questo tempo? Cosa accomuna questi esempi riusciti? Senz’altro una visione forte. Lo stesso elemento che ha reso così speciali quei pochi adattamenti riusciti in passato è presente ancora di più in questi successi odierni. Potrebbe essere considerata una banalità ma il procedere nello sviluppo di un prodotto del genere, in compagnia di un concept forte, che possa funzionare anche in autonomia, è senz’altro il primo passo per produrre un adattamento “universale” di successo.
Allo stesso modo è impossibile non vedere come, tutti gli esempi positivi sopra riportati, diano l’impressione di aver capito le opere che stanno adattando. Edgerunners si rende conto perfettamente di quali dilemmi passino nella testa di ogni cittadino di Night City, quali siano i punti di forza di un’ambientazione apparentemente idilliaca ma fondamentalmente marcia alla base. Fallout è cosciente della forza dell’ambientazione postatomica e dei personaggi assurdi che popolano la sua Wasteland e di questo ne fa un estremo vanto.
Potrebbe essere prematuro affermare tutto ciò. Ma è senz’altro il caso di dire che, dopo 30 anni di insuccessi, potremmo trovarci alle porte di una nuova epoca di crossmedialità, di adattamenti che dovranno davvero lavorare sodo se volessero fallire come in passato. Sarà la maggiore maturità di ambo i media coinvolti, la voglia di vedere materiale diverso o forse ancora l’idea che i creativi di oggi sono in tantissimi casi cresciuti non solo come cinefili, ma anche come videogiocatori. A prescindere da quale sia l’effettivo bandolo della matassa, viene difficile, di fronte a questo miglioramento generale, non mettersi a sorridere e sperare che, tutto sommato, le cose non possano far altro che migliorare.