Il chiosco di Mrs Walker raccoglieva ogni giorno stormi di corpi efebici e sudaticci intorno ai tavoli di sequoia arsi dalla calura losangelina. Gli hamburger grondanti sangue, i succhi d’arancia appena spremuti, l’aria salata della costa, il Warner Brother’s Theatre. R. amava San Pedro perché non sembrava reale: il vento cospargeva la città di aromi di gardenia e gelsomino e cascate di bouganville rosa bagnavano i bassi edifici di provincia. La realtà cedeva alla tentazione del sogno, della fantasia infantile, un setoso manto di speranza velava la cittadina portuale. Ma un sogno è tale solo se sfugge, solo perché è la proiezione di un desiderio laddove i desideri sono in realtà l’evocazione temporanea di bellissimi spettri. Un incenso che brucia, una nebbia densa, il fumo del calumet (smoke gets in your eyes). R. lasciò San Pedro, ma non Los Angeles: dreams must go on. Sapeva scrivere, gli piaceva farlo di notte, quando la città dormiva e il pallore della luna illuminava timidamente Mulholland Drive e Sunset Boulevard. Creare storie, questo voleva fare. Dare una struttura ai sogni, significati che potessero sottrarsi alla passività del sonno, tradurre la lingua subliminale dell’inconscio.
Agli occhi di R., le lettere cubitali a Canyon Lake brillavano come principesse persiane. La chiamavano fabbrica dei sogni, lui lo sapeva bene. Forze simili a primi slanci libidinosi, gli occhi teneri ma inquieti di chi per la prima volta scopre un corpo, una fisicità proibita, ecco cosa deve aver provato R. quando decise di entrare ad Hollywood per la prima volta. La televisione, poi Corman, Fleischer, Hal Ashby. R. divenne in pochi anni il giovane sceneggiatore più promettente di Hollywood. Ma, più di ogni altro lavoro, R. si era fatto notare per aver messo mano alla sceneggiatura di Gangster story, considerato il film capostipite (assieme a Il laureato) della Nuova Hollywood. Non è ben chiaro in cosa consistesse la revisione apportata da R. all’originale di Robert Benton e David Newman, ma Gangster Story fu il momento di svolta per un giovane sceneggiatore che di lì a poco si sarebbe trovato in cima alla lista degli scrittori più richiesti a Hollywood.
“Voglio scrivere un film per Jack”
R., prima di entrare ad Hollywood, aveva conosciuto un tipo. Sguardo arcigno, sorriso diavolesco, spavalderia del New Jersey trapiantata a Los Angeles, amante del cinema, devoto al teatro: il suo nome era Jack Nicholson. Si conobbero ai corsi di recitazione del Pepperdine College e insieme iniziarono a frequentare il caratterista Jeff Corey, che aveva trasformato il suo bungalow in una sorta di scuola-laboratorio per giovani aspiranti attori. Si piacquero immediatamente. R., in particolare, rimase affascinato dal talento straordinario di Jack, dalla sua capacità rarissima di cogliere il dettaglio, di svelare ciò che è nascosto, di manovrare la suspense, di rendere teatro anche il più elementare dei silenzi. «Ragazzo, tu diventerai una stella del cinema», disse R. a Nicholson. Sogghignando, Jack rispose: «E io scriverò copioni per te».
– «Voglio scrivere un film per Jack», disse R. alla moglie Julie.
– «Che genere di film?», chiese lei.
– «Un poliziesco. Magari con Jane Fonda nel ruolo della
– «Di che parla?»
– «Los Angeles. Anni Trenta. Prima della guerra.»
– «Che succede?»
– «Non lo so. Per ora so solo questo.»
– «Vado in biblioteca», terminò Julie, «Vediamo cosa trovo.».
Il giorno dopo Julie tornò non con un romanzo, ma con un saggio: Southern California: An Island on the Land di Carey McWilliams. Si tratta di un testo sulla storia della California meridionale, dei suoi protagonisti, sulla metamorfosi di Los Angeles da territorio semi-desertico in metropoli del sogno americano. R. ne rimase incantato e s’abbandonò immediatamente al vortice nozionistico della cronaca losangelina passata, studiandone le migrazioni, l’espansione, le trasformazioni urbanistiche, gli effetti della Depressione. Ma fu, in particolare, il capitolo “Water! Water! Water” a stravolgergli la lettura. Sono le pagine in cui McWilliams narra la storia dell’acqua nella California del sud, di William Mulholland, che aveva assicurato l’approvvigionamento idrico necessario all’espansione della città degli angeli convogliando l’acqua dal lontano nord della Owens Valley, e del disastro che ne scaturì dopo.
Il disastro che ne scaturì dopo
La storia, in breve, inizia nel 1903 e si protrae per diversi anni nelle aride distese della California del Sud. JB Lippincott, ingegnere capo dell’ufficio di bonifica degli Stati Uniti in California, annunciò ai residenti della Valle di Owens un importante progetto di bonifica, convincendo agricoltori e braccianti a rinunciare alla rivendicazione di priorità sull’acqua, essenziale per la loro sussistenza, approfittandosi dell’ingenuità fanciullesca non del tutto estranea al sottoproletariato. Di fatto, come la storia insegna, il ricco fotte il povero. Una volta acquistata una sufficiente quantità della loro terra, Lippincott cancellò il progetto, dando le dimissioni. In breve tempo la città di Los Angeles, apparentemente volenterosa di aiutarli, presentò ai cittadini un prestito obbligazionario di venticinque milioni di dollari per costruire l’acquedotto della Valle di Owens; e per forzare il passaggio delle obbligazioni, per creare scarsità, scaricò segretamente enormi quantità di acqua nelle fogne. La siccità fu l’effetto immediato.
I cittadini di Los Angeles, naturalmente, approvarono il prestito obbligazionario per l’acquedotto, non potevano privarsi di un bene primario come l’acqua. Ma anziché rifornire la città di Los Angeles con l’acqua che aveva pagato 25 milioni di dollari, i colletti bianchi che avevano ordito la truffa portarono l’acquedotto solo fino all’estremità settentrionale della valle di San Fernando, cioè dove appena un anno prima avevano comprato clandestinamente quarantamila ettari di terra. I terreni così irrigati, che avevano acquistato per quattro soldi, fruttarono loro un profitto di dieci milioni di dollari. I ricchi diventarono ancora più ricchi, i poveri ancora più poveri, gli abitanti di Los Angeles furono derubati, centinaia di ettari furono decimati e “lo stupro della Valle di Owens”, così definito nel libro della McWilliams, proseguì indisturbato.
Chinatown, ovvero credere nella magia
Era fatta, R. aveva tutto il materiale necessario. Ma il progetto di partenza era un poliziesco, un poliziesco con Jack Nicholson, un poliziesco che potesse innanzitutto valorizzare il giovane attore (sino ad allora, come ricorda Sam Wasson, Nicholson aveva sempre avuto “grandi ruoli in piccoli film e piccoli ruoli in grandi film”). Allo stesso tempo, creare un’opera che potesse funzionare anche come straordinaria operazione metafilmica di dialogo col passato: la letteratura hard-boiled di Chandler, Hammett, Cain (che R. amava) e quindi i noir di Hawks, Preminger, Walsh, Huston soprattutto. Non ci furono dubbi, a questo punto. Narrare la vicenda dell’acqua della Owens Valley attraverso la riproposizione e il riassemblaggio “pre-postmoderno” di ambienti, tipi, formule, canoni del noir classico. Al centro della storia un volto, destinato all’iconicità, che per questo meritava di essere sfruttato, dissezionato dalla macchina da presa, storicizzato, impresso su pellicola. “Stavo pensando di chiamarlo Chinatown” (trailer). È il 1971.
L’incontro si tenne a casa di Robert Evans, dirigente della Paramount, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella produzione de Il padrino. Evans invitò a cena R. per discutere, ancora una volta, di revisioni. In quel periodo, infatti, aveva acquistato i diritti per realizzare un adattamento del Grande Gatsby. Ma R. non voleva più sentir parlare di revisioni, aggiustamenti, modifiche, aveva piani ben più complessi, voleva essere un autore. «Voglio parlarti di Chinatown», disse ad Evans, «una storia di incesto e falde idriche, ambientata negli anni Trenta. Un detective di mezza tacca si fa incastrare da una donna misteriosa. Anziché risolvere un caso per lei, cade nella sua trappola. Lo sto scrivendo per Nicholson.». Evans si interessò immediatamente al progetto ed offrì venticinquemila dollari per comprare la sceneggiatura. L’opera era sì di R., ma ormai, legalmente, di proprietà della Paramount: l’industria funziona così. Per quanto R. si dicesse entusiasta del progetto, la prima versione della sceneggiatura non lasciò particolarmente soddisfatti i suoi sostenitori e sia Evans che Nicholson si divertivano a stuzzicarlo, confessando una certa difficoltà nel seguire svolte narrative e colpi di scena.
A dire il vero, anche Polanski, scritturato da Evans per dirigere il film, si mostrò inizialmente sfiduciato: a detta sua, il film avrebbe effettivamente funzionato solo attraverso importanti cambiamenti. Ma nonostante le modifiche apportate da R., la sceneggiatura continuò a non convincere. I piani alti della Paramount spinsero Evans ad abbandonare il progetto, o almeno di non riporci troppe speranze. In effetti, le perdite sarebbero state ancora minime ed Evans avrebbe potuto puntare su idee meno originali, ma certamente più sicure. Ma non si trasse indietro: «Anche se non tutto mi era chiaro mi ero pur sempre accaparrato Nicholson e sapevo che R. era un grande sceneggiatore. Mi sentivo come un giocatore che scommette di fare due sette di fila ai dadi». R. non è stato il primo né sicuramente l’ultimo esempio di quanto la valutazione di una sceneggiatura apparentemente complessa possa subire giudizi e letture totalmente distanti dalla sua reale qualità artistica. Distanti e distorti non per una semplice dissonanza di idee, ma perché spesso nel cinema il giudizio ultimo è affidato a figure più simili ad un Pat Brady che ad un Monroe Stahr, ad azionisti più che a produttori.
Ad ogni modo, Evans continuò ad investire nel progetto, intravedendo la raffinatezza potenziale del capolavoro e sviluppando una sorta di complesso paterno nei confronti dell’opera, pur essendo stato semplicemente un compratore. L’aver avuto tutti insieme, in un unico lavoro, uno degli sceneggiatori più quotati, uno degli attori più talentuosi della sua generazione ed un regista che pochi anni prima aveva ottenuto un successo straordinario con un film che parlava di una biondina ingravidata dal demonio, fece maturare in Evans un morboso ed ossessivo senso di protezione. Come ricorda David Thomson: «Evans si riteneva a pieno titolo il proprietario del film, poiché così ragionavano i dirigenti del suo calibro, i numi finanziari di Hollywood. Gli studios possiedono i film, ma sono i produttori a realizzarli. Un’altra considerazione importante è che Evans viveva il progetto come una sorta di scommessa, non solo per via dell’antitesi fra vincita e perdita, ma anche perché giocare d’azzardo significava sfidare tutti i sacri comandamenti americani sul lavoro duro e la meritata ricompensa. Significava credere nella magia.» Eppure, senza R. Chinatown non sarebbe mai esistito.
L’aspetto più travagliato della vicenda, comunque, risiedette nella conflittualità evidente tra R. e Polanski durante la trasformazione della sceneggiatura in copione: dalla scelta delle scenografie a quella dei costumi, passando per le discussioni su come utilizzare al meglio i due beni essenziali per la riuscita di un film, ovvero tempo e denaro. R. pensava, rifletteva, elucubrava a lungo sui dettagli, Polanski era irruento, aggressivo, famelico. R. aveva i dubbi dello scrittore, Polanski i dubbi del regista. L’uno tendeva a perdersi in questioni oscure, misteriose; l’altro su aspetti più pratici, problematiche concrete. Erano così distanti l’uno dall’altro, che per un momento Chinatown parve destinato a dissolversi nella prospettiva di un rimpianto. Ma fu il finale ad incrinare ulteriormente gli equilibri già di per sé vertiginosi. R. aveva pensato ad un lieto fine: Evelyn Mulwray (Faye Dunaway) sarebbe partita con sua figlia, mentre Noah Cross (John Huston) sarebbe rimasto ucciso. Il bene avrebbe vinto sul male e Jake Gittes (Nicholson) sarebbe tornato ad occuparsi di presunti tradimenti, capricci di borghesi accaldati.
Ora, è chiaro che per un individuo che ha passato infanzia e adolescenza nella Polonia occupata dai nazisti, con i genitori rinchiusi nei lager, uscito devastato dal recentissimo trauma del brutale omicidio della moglie da parte degli hippie-Manson-invasati, una storia da “vissero felici e contenti” non era certamente tra le prime opzioni concepibili. Insomma, se R. era un romantico, Polanski era un cinico e il finale non poteva risolversi con l’atteggiamento conciliante dei classici hollywoodiani. Quindi, poco prima di girare il finale, Polanski riscrisse le scene, questa volta con l’incombenza del destino funesto tipica della tragedia greca (e Chinatown ha tutti gli elementi per cui ci si può permettere un simile definizione senza l’imbarazzo reverenziale che si portano appresso categorie analoghe come “capolavoro”). Evelyn muore, la figlia finisce nelle mani del mostro incestuoso Noah Cross e Gittes rimane ancora una volta solo e disperato nel bel mezzo di Chinatown, luogo di un passato di morte e smarrimento per il detective.
Nelle modifiche di Polanski, Chinatown doveva essere luogo fisico e simbolico di un male da cui non è possibile fuggire, di un mondo in cui è il male a trionfare, al di là delle implicazioni più strettamente politiche. R. protestò molto sia con Polanski che con Evans, che tuttavia si dimostrò molto più convinto dalla versione del regista, finendo per estromettere lo sceneggiatore dal set. Il film non vide mai un finale alternativo, a dire il vero non ne vide proprio la possibilità in fase produttiva considerata l’assoluta indisposizione da parte del regista di girarla. Ma il pubblico e la critica non si lamentarono e Chinatown è ora riconosciuto, più o meno unanimemente, come un classico, un capolavoro (detto senza la minima parvenza d’imbarazzo) della storia del cinema. Il successo al botteghino fu clamoroso (ventinove milioni di dollari a fronte di un budget di sei milioni), il film venne candidato ad undici Oscar e, perversa ironia della sorte, vinse proprio come miglior sceneggiatura.
Lascia stare, Robert, è Chinatown
In termini autoriali, Chinatown era di Robert: la ricerca di materiale, le contaminazioni, i personaggi, la storia, Jack, Jake, Noah Cross, Evelyn, Los Angeles. Tutto faceva parte di un disegno demiurgico che rispondeva al nome di Robert Towne. Ma nell’industria, l’arte non può esimersi dal compromesso. Ciò che ai nostri occhi appare d’una sacralità verginale, nella realtà è un corpo martoriato da decisioni della pluralità, modifiche, conflitti, discussioni, interventi, ordini, politiche. Per quanto Robert si ritenesse un romantico, per quanto preferisse gli scorci lunari nella quiete delle colline di Beverly alla cocaina e allo champagne delle feste private, per quanto potesse convincersi della paternità di un’opera, era il mercato a contare realmente. Entrare in un’industria come quella del cinema significa accettarne la violazione, la perdita dell’innocenza d’artista che scrittori o registi esordienti sperano (e credono) di preservare prima di varcarne la soglia. Robert Towne era convinto che Chinatown fosse suo e avrebbe voluto raccontarlo solo e soltanto a modo suo. Era come se ignorasse deliberatamente la prospettiva del compromesso, delle revisioni, degli interventi e del mercato.
Ma l’arte è un bene commerciabile. Il sogno romantico e struggente dell’opera, la creatività libera, la tensione dello spirito, sono bugie che nella fabbrica dei sogni vengono cinicamente fatte implodere, pur continuando a preservarne la promessa illusoria: lo spettatore deve continuare a credere in qualcosa, nonostante tutto. Con le parole di Thomson, «se l’opera di Towne fosse stata un romanzo, forse, sarebbe durata più a lungo. Ma Towne aveva rinunciato a quell’opportunità vendendo la storia assieme ai diritti: in cambio di un generoso anticipo, dei probabili profitti successivi, del miraggio dell’Oscar e della gloria cinematografica. E uno sceneggiatore può biasimare solo sé stesso per i compromessi che accetta. Anche noi, in quanto pubblico – o comunità culturale – dovremmo tener conto di tali compromessi quando giudichiamo l’impatto, o il valore, dei film. Perché sono le grandi aziende e le società di produzione a fare i film, non gli individui o i singoli artisti». Chinatown è la disillusione, la verità brutale di Thomson, il compromesso e il sogno svanito. Chinatown è il capolavoro di Towne, e di Polanski, e di Evans, e di Nicholson. Chinatown è il relativismo dell’autorialità, la sfumatura infame dell’arte che volontariamente non accettiamo perché troppo pericolosa, e che svela un sistema simile ad «una galera da cui ti lasciano uscire solo per cattiva condotta», citando Budd Schulberg.
«Chinatown», disse una volta Robert Towne, «è uno stato mentale. Non solo un luogo sulla mappa di Los Angeles, ma una condizione di totale consapevolezza quasi indistinguibile dalla cecità. Sognare di essere in paradiso e svegliarsi al buio: questo è Chinatown. Pensi di avere capito tutto e realizzi che sei morto: questo è Chinatown».
BIBLIOGRAFIA
Sam Wasson, Il grande addio. Chinatown e gli ultimi anni di Hollywood, Jimenez edizioni
David Thomson, La formula perfetta. Una storia di Hollywood, Adelphi
Renato Venturelli, Cinema noir americano 1960-2020. Pulp, crime, neo-noir, Einaudi
Leonardo Gandini, Il film noir americano, Lindau
Emiliano Morreale (a cura di) e Mariapaola Pierini (a cura di), Racconti di cinema, Einaudi