Il Cinema e la Storia: da sempre un rapporto controverso. Nonostante si siano non di rado prestati l’uno all’altro, corrono sguardi di sospetto tra i due. A partire dagli anni duemila, però, qualcosa è cambiato: il Cinema smette di sfruttare la Storia, magari manipolandola per farla combaciare con la propria versione dei fatti (spesso, tra l’altro, controversa). Anzi, il Cinema tenta una palingenesi, cerca di creare una propria Storia, personale, contaminata dalla fantasia e che non tende alla verità fattuale; in tali opere ci sono altri tipi di verità rispetto a quella storicistica che le rende ugualmente imprescindibili, se non superiori ad una semplice ricostruzione degli eventi.
Che tipo di valore e che tipi di verità acquisiscono queste opere? Da cosa deriva questa necessità di reimmaginare la Storia? È la necessità di creare dei nuovi miti? Domande legittime ed interessanti, che con la recente uscita del nono film di Quentin Tarantino, Once upon a time… in Hollywood, si fanno anche più interessanti e pressanti. Domande, però, non adatte a trovare risposta in un semplice approfondimento. È però utile e divertente trovare delle risonanze di questa strategia comunicativa in pellicole degli ultimi vent’anni, chiedendosi brevemente cosa abbia spinto i suoi autori a scegliere questo modus operandi e a che risultati abbia portato. Eccone, quindi, cinque esempi.
Buongiorno, notte, di Marco Bellocchio, 2003 (qui il trailer)
Cominciamo da un caso italiano. È del 2003 il film con cui Bellocchio reinterpreta il sequestro di Aldo Moro, uno degli eventi traumatici più importanti della storia d’Italia. Lo fa dall’interno dell’appartamento-prigione, dove però la Storia entra solo attraverso il fuoricampo, attraverso la televisione. Il film infatti non segue né una delle numerose teorie dietrologiche legate all’evento, né il suo racconto ufficiale. Il film è un racconto lirico, che guarda al dominante che si fa dominato ed ai dominati che vogliono disperatamente diventare dominanti. A fare da contrappunto agli eventi c’è la fantasia, quella di Chiara, protagonista e membro delle BR.
Dalla sua fantasia risuonano le scene oniriche che ne rispecchiano i sentimenti, dalle immagini de I tre canti di Lenin di Vertov quando ancora crede nella causa rivoluzionaria, alla fucilazione dei partigiani di Paisà di Rossellini quando si insinua in lei il dubbio sulla validità del tragico sequestro. Fino al finale, nel quale Chiara sogna un epilogo diverso, nel quale Moro esce spontaneamente dalla sua prigionia, passeggiando sollevato nei pressi dell’Eur. Un falso immaginifico che viene alternato alle immagini di repertorio dei potenti al funerale dello statista. E in questa opposizione, secondo Canova, Bellocchio, nell’eterno scontro tra il cinema che rappresenta ciò che è accaduto ed il cinema che immagina ciò che sarebbe potuto succedere, prende le parti del secondo: è lì che si può scorgere il volto del potere così sfuggevole.
Che – L’argentino & Che – Guerriglia di Steven Soderbergh, 2008 (qui il trailer)
Due in uno, visto che al cinema fu distribuito in un montaggio unico di più di quattro ore, mentre in DVD appare spezzato in due parti. La prima, L’argentino, mostra il leggendario rivoluzionario dal primo incontro con Fidel Castro nel 1955 alla vittoria della rivoluzione cubana del 1958. La seconda, Guerriglia, ci porta dentro la rivoluzione boliviana supportata e combattuta da Guevara per un anno nei boschi. La figura del Che è sempre stata controversa, tra chi lo giudica un assassino e chi un eroe della libertà: a Steven Soderbergh non interessa schierarsi e cerca di andare oltre quello che è diventato, ovvero un simbolo.
“La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone senza immaginazione”. Soderbergh cita Oscar Wilde a margine della presentazione della pellicola al NYFF. Sopraffatto dall’enorme numero di opere dedicate al Che, decide di tentare di riprodurre il punto di vista dell’uomo Che più che la sua storia, cercando di non propendere né per un’agiografia né per un ritratto demoniaco. Ne rimane un insieme di piccoli gesti e piccole azioni che hanno il pregio di dipingere un uomo nella sua complessità, nella sua incoerenza. Ed è proprio questa ambiguità che non lo riduce a simbolo, ovvero rappresentazione della rivoluzione, in tutto il suo bene per i suoi sostenitori e in tutti i suoi mali per i suoi detrattori.
Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, 2009 (qui il trailer)
“C’era una volta nella Francia occupata dai nazisti”. Col primo cartello del film Tarantino mette in chiaro come nella pellicola alla Storia si preferisca il Cinema. A differenza di Bellocchio, che instaura una dialettica tra fantasia e Storia separando sogni e realtà, Tarantino opta pienamente per la fantasia. Ne consegue un trattamento ironico e irriverente di nazismo e Shoah, che sollevò numerose critiche ed indignazione, in parte anche comprensibili. Ma questo film non è un documentario, è la Storia che Tarantino avrebbe voluto poter raccontare a noi spettatori se le cose fossero davvero andate così.
Si capisce, quindi, anche il finale, sconvolgente tripudio di sangue nazista nel rogo dell’arte, sacrificata per la Storia. Il film prende le distanze dalla verità, distanze che gli fanno acquisire un potere di redenzione: un cinema, che Roy Menarini definisce anti-filologico, che può qualificarsi anche come morale. E mentre Aldo Raine incide una svastica in fronte ad Hans Landa, reo di aver barattato il suo pentimento per la salvezza, il cinema pugnala la verità storicistica per cercare di suturare la ferita nella memoria e renderla morale. Prima di Once upon a time… in Hollywood, Tarantino subordina la Storia alla fiaba. La sua fiaba.
Neruda di Pablo Larraìn, 2016 (qui il trailer)
Un ritratto poetico di quello che Gabriel Garcia Marquez definì “il più grande poeta del XX secolo in ogni lingua”. Larraìn ha sempre avuto un rapporto particolare con la Storia, che fosse quella del suo paese, il Cile, o quella di altri paesi come gli USA. Si comprende l’esigenza, l’urgenza, non tanto di dipingere la vita di Neruda, quanto di rappresentarne l’universo, il cosmo. Lo stesso Larraìn sostiene come l’essenza del poeta pervada tutto nel suo Cile, dall’acqua, agli alberi, alla terra. La fuga nel 1948 dalla sua terra natia verso l’Europa e attraverso le innevate Ande, a causa della sua opposizione al presidente Videla, accusato di essere troppo vicino ai modi di Francisco Franco, è tutt’altro che accurata storicamente, come lo stesso regista ammette. D’altronde, il film a sua detta è un’emanazione della poesia stessa di Neruda.
“Per me il cinema è legato agli illusionisti”, sostiene Larraìn. E per questo, la pellicola risulta una meta-narrazione labirintica alla Borges, incentrata sulla necessità di raccontarci storie: sono queste ultime che ci tengono in vita. Oscar, l’investigatore sulle tracce del grande poeta, e Neruda si creano a vicenda e si pongono al centro di una storia dalla quale traggono la loro esistenza. Il loro nome all’interno di essa ne decreta l’esistenza. Va da sé che il figlio del detective, realmente esistito, ha dichiarato che la figura del padre ne esce irriconoscibile dal racconto. Ancora una volta, il cinema e la sua poesia prendono le distanze dalla fattualità.
Vice di Adam McKay, 2018 (qui il trailer)
“Questa è una storia vera. O, perlomeno, quanto di più simile alla verità, poiché Dick Cheney è uno dei leader politici più riservati della storia. Ma abbiamo fatto del nostro meglio, cazzo.” Comincia così il film di McKay e più chiaro di così non poteva essere. Il film, che mette in scena la parabola politica ed umana di Dick Cheney, vicepresidente degli USA sotto George W. Bush, ha il suo vero focus su quello che è un atteggiamento di una generazione, che vede nella politica uno strumento per non cambiare il mondo, o cambiarlo quel tanto che basta perché la politica non cambi e con essa le mani che stringono al collo il potere. Nell’era del depistaggio, la verità viene talmente tanto diluita da renderla impalpabile, ma allo stesso tempo onnipresente nei suoi frammenti.
McKay genera così un carosello di rotture della quarta parete, finti finali, sketch irriverenti ed irrealistici, dai quali emerge l’opportunismo di una classe politica che preannuncia la crisi futura della democrazia. Il film è un insieme di fatti e di omissioni, queste ultime riempite da una comicità alla Saturday Night Live che fanno emergere l’amaro punto di vista del suo autore. È, d’altronde, una risata a rivelarci il vuoto del potere, che cerca di perpetuare sé stesso ed è comprensibile solamente a chi lo detiene. Esattamente come Dick Cheney, dallo sguardo penetrante e impenetrabile, dietro al quale non si scorge nulla e non si ode nulla. E di quel silenzio il film è più che consapevole. Nel pieno della crisi dell’11 Settembre ci viene mostrato un Cheney silente e pensieroso, con il narratore che ci confessa che “nessuno sa cosa pensò in quel momento”. Un silenzio che la Storia non riuscirà mai a penetrare, un vuoto nel quale però si materializza il potere, in tutta la sua ambiguità.