Riflettendo su C’era una volta a… Hollywood (trailer), la prima immagine, romantica, a balzare in mente è quella di un Tarantino seduto nella penombra sul pavimento di una stanza mentre tira fuori da vecchi scatoloni le sue videocassette impolverate e consumate (perché per lui il vero cinema è quello su nastro). Non c’è nessun altro, solo il silenzio interrotto dai sospiri nostalgici nel momento in cui lo sguardo scorre sui titoli di quelle cassette: Le Iene, Pulp Fiction, Bastardi Senza Gloria, Django Unchained… E allora eccola, l’epifania, la necessità di spogliarsi dei panni per riscoprirsi nudo. Dopotutto siamo arrivati al numero nove, il capolinea del dieci ci aspetta solo qualche isolato più in là.
C’era una volta a… Hollywood nasce così, nel discorso, a tratti banale, che si sviluppa con sé stessi quando si è a un passo dal traguardo. Il nono film di Quentin Tarantino, che nella sua quasi trentennale carriera di banale ha avuto ben poco, è la creatura rispettosa manifesto di ciò che da sempre è più caro al regista di Knoxville. Il film ci risucchia a spirale nella Hollywood del 1969, paese dei balocchi riprodotto con una dovizia dei particolari che è firma maniacale di chi quel mondo sa di amarlo e senza il quale non sarebbe mai potuto essere ciò che è. Quella Hollywood è un crocevia di storie che lì nascono, crescono e si incrociano, una corda tesa tra le pulsazioni di una materia emotiva che lega spazi e tempi apparentemente distanti.
Tra tutti quei volti che oggi ci sono e domani chissà, seguiamo, per qualche giorno, le vite di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt). Rick è un attore di fama mediocre, destinato a un lento declino e incapace di accettare un incedere del tempo che consuma tutti, specialmente nel tritacarne degli studios losangelini. Cliff è l’altro peso della bilancia, stunt-man che in quegli studios non è visto tanto di buon occhio e dove mette piede solo grazie a Rick, di cui era controfigura sul set e ora lo è anche fuori, nella vita vera, cosa che pare non turbarlo ma che anzi lo gratifica a modo suo.
Nell’osservare le vicissitudini di questi due comprimari della realtà hollywoodiana (e di rimando americana), Tarantino assume un atteggiamento compassato che credevamo non potesse essere proprio della sua natura. Si spoglia, in modo cristallino, di molti degli orpelli stilistici caratteristici del suo fare cinema, senza, sia chiaro, rinunciare del tutto a un certo gusto per meticolosità e feticismi. Questo snellire una narrazione di per sé già ridotta all’osso (pochissimi dialoghi rispetto al passato), superato, o meglio assimilato, lo shock di uno stile in superficie (ma solo lì) irriconoscibile, giova all’emersione del cuore cento per cento tarantiniano di questo film. Lo sguardo è quello di una coscienza sognante, di chi si ferma un attimo e annuncia, quasi pregando: “per questa volta non fatemi essere altro che il me commesso della videoteca, dopotutto sono quasi alla fine”.
In C’era una volta a… Hollywood la cultura cinematografica del Tarantino cinefilo riesce a non scadere nella saccenteria, in virtù del fatto di manifestarsi come amorevole sorriso di chi coltiva un semplice sogno di gioventù. Tuttavia, a livello di tenuta d’insieme, l’omaggio onirico non si rivela sufficiente di per sé, con la pellicola che rischia di deragliare in un paio di punti lungo il corso dei suoi 166 minuti di durata. Per questa ragione i variopinti frammenti di racconto trovano il loro centro di gravità nel personaggio di Sharon Tate (Margot Robbie), catalizzatore essenziale di significati (e significanti) che nel loro vorticare centrifugo altrimenti schizzerebbero via. Il ritratto che ne fa Tarantino è di una delicatezza estrema, un tocco morbido per quella che è la reale musa ispiratrice e senza la quale il film collasserebbe su sé stesso. La Robbie ne delinea squisitamente nei balletti e negli occhi gravidi di gioia quell’aura di desiderio favolistico, che nella perfetta esposizione del corpo in uno spazio sublima la messa in scena non solo sua, ma di tutte le altre storie che alla Tate vorticano attorno.
E su queste storie, tra le quali c’è spazio anche per i bellissimi demoni pagani della Manson Family con la quale si consumerà l’unica vera, tesissima, sequenza di suspance, aleggia un tono cinereo che fa da filo conduttore di tutto il film. Di essere al cospetto di una fiaba lo sappiamo già prima di sederci in sala, ma l’esposizione del racconto di Tarantino è di quelli sospesi, dalla voce un po’ rotta e dall’occhio lucido. Tutto ciò trova conferma nell’esplosione finale di violenza (della quale non vi sveleremo nulla), così rabbiosa e insistita da risultare mille miglia distante dalla produzione precedente del regista. E’ un grido liberatorio, di quelli che sciupano le corde vocali e che poi si abbandonano a un pianto rigeneratore.
Siamo convinti che C’era una volta a… Hollywood occuperà per molto tempo i discorsi degli appassionati e degli studiosi. Probabilmente, e legittimamente, molti non riusciranno ad apprezzarlo, considerata la sua natura atipica e a tratti non troppo brillante. Quello di cui siamo altrettanto convinti è però l’estrema importanza di questo nono passaggio, tappa fondamentale perché possa sbocciare, grandiosamente, l’ultimo capitolo di una straordinaria carriera.
C’era una volta a… Hollywood sarà nei nostri cinema a partire dal 18 settembre.