In questi ultimi giorni, da quando Licorice Pizza è entrato nel cuore di molti spettatori, un’espressione è stata per lo più legata al film di Paul Thomas Anderson: è un film che fa bene al cuore. Eppure, fra molti altri, c’è un pezzo della storia hollywoodiana che proprio oggi compie 70 (Settanta!) anni e che provoca un po’ lo stesso effetto: Cantando sotto la pioggia (trailer), diretto da Stanley Donen e dall’impareggiabile protagonista, Gene Kelly.
La magnificenza di questo film mi porta ad un dilemma, col ricordo di ogni scena, imparata a memoria, ballo dopo ballo e canzone dopo canzone: come si parla di un film che si è conosciuto per tutta la vita, cui si ha paura di non rendere giustizia, nel tentativo di celebrarlo? Line Hilton [1] si è chiesta come mai, ancora oggi, sia un film ancora così popolare, giungendo alla conclusione che la motivazione sta tutta nel suo essere favoloso. E per quanto non si possa che concordare, stavolta ci addentreremo un po’ di più su cosa lo rende il film che è… o almeno ci proveremo.
È il 1927. Le folle osannano attori e attrici, sono da loro affascinate, intimorite, estasiate. Don Lockwood (Gene Kelly) è un divo del cinema muto, che come molti è partito avendo nulla con sé se non buona volontà e una certa dose di talento. Oltre che un inseparabile e simpaticissimo amico di nome Cosmo Brown (Donald O’ Connor). Lina Lamont (Jean Hagen) è la sua compagna di successi, con la chioma bionda platino e una posatezza quasi inumana. A disturbare questo felice equilibrio arriverà però la giovane Kathy Selden (Debbie Reynolds), futura promessa del grande schermo, che come una ventata di aria fresca, farà tremare le fondamenta della tradizione, insieme allo “spaventoso” sonoro.
Cantando sotto la pioggia è un film che ha fatto la storia ma è a sua volta un film sulla storia. Citano Il cantante di jazz che, proprio nel 1927, cambiò le carte in tavola, segnando un punto di rottura e di rivoluzione. Dopo questa data arriveranno infatti i cosiddetti talkies, i film parlati. Un’innovazione che secondo Simpson (Millard Mitchell) non durerà ma, come ben sottolinea Cosmo, lo stesso si disse per l’automobile. Cosa rende così speciale la resa di Donen e Kelly? Sicuramente la demistificazione della quasi olimpica venerazione dello stardom hollywoodiano, con toni leggeri e per niente drammatici.
Lina dà voce (e che voce) a tutti quegli attori la cui mimica facciale non ha potuto reggere il peso dell’evoluzione tecnologica e che è quindi lasciata indietro. Potrei quasi arrischiarmi nel considerarla la versione comica, non velata dall’angoscia del tempo che passa, di Norma Desmond in Sunset Boulevard, il sensazionale noir di Billy Wilder. E sì, probabilmente sarebbe arrischiarsi un po’ troppo, ma entrambi i personaggi hanno dalla loro parte la distanza temporale fra l’anno in cui il film è ambientato e quello in cui è prodotto: abbastanza da guardare chiaramente a ciò che era accaduto.
E ci sono pochi modi come la commedia per riuscire a far passare un messaggio, qui involontariamente didattico: non potendo usare la propria voce per recitare, sono protagonisti i movimenti esagerati che traslati nei talkies rendono più “cartoonesco” il risultato e quindi un flop Il cavaliere spadaccino, l’ennesimo film Lockwood/Lamont. E con ennesimo andiamo a sottolineare un’altra particolarità del cinema che ha preceduto la golden age hollywoodiana (ma che forse è sfociato un po’ anche in quell’era): come direbbe Cosmo Brown, «visto uno si son visti tutti».
Nella sequenza in cui Don sta per iniziare le riprese de Il cavaliere spadaccino, lo vediamo passeggiare per gli studios e dietro di lui si susseguono tutta una serie di set di diversi film in produzione, ma nello stesso teatro di posa. Ora, probabilmente c’è ben poca veridicità storica in questa resa ma essa veicola, in realtà, una sottile critica alla “mancanza” di arte nel modo di lavorare di quei tempi (tenendo sempre conto del fatto che non c’è più un modo univoco per considerare l’arte come tale). Si trattava di una vera e propria catena di montaggio, quasi impersonale. Quantomeno sembra essere questo il messaggio che Donen e Kelly vogliono far passare.
E quindi, Cantando sotto la pioggia, sembra essere una rivalsa artistica di un periodo che, almeno in America, ha visto più similitudini che eccezioni. È anche una celebrazione di quello che i mezzi degli anni ’50 potevano rendere possibile, insieme alla libertà artistica di cui un duo affermato poteva godere. Il film nasce infatti da un desiderio di unire una serie di canzoni e di numeri musicali, la storia è un mezzo per giustificare tale unione. I due elementi si intrecciano fra di loro creando un equilibrio molto stabile e che sfrutta l’evoluzione del pubblico, riferendosi direttamente ad esso. Non è difficile notare come i momenti musical siano pura espressione cabarettistica e teatrale, con lo sguardo rivolto direttamente alla macchina da presa.
La musica diventa esposizione di un passato che viene riscritto per adattarsi ai crismi della fama (Fit As A Fiddle), una semplice scusa per inserire coreografie acrobatiche (Make ‘Em Laugh, Good Morning, Moses Supposes), servite con un contorno di costumi da sogno (All I Do Is Dream Of You) e un po’ di “sano” capitalismo (Beautiful Girl). Diventa pura arte, sperimentando fra ambientazioni, generi diversi, viaggiando fra il surrealismo e l’onirismo (Broadway Melody). E, infine, si fa esplosione di emozioni, quando non si sa come esprimerle (You were meant for me) e quando non si sa più contenerle e possono solo esplodere (Singin’ in the rain).
Come spettatori, ci sentiamo così ingaggiati e immersi nei colori, nei suoni, nelle sensazioni che questo film può generare. Ma anche un altro fattore entra in gioco ed è tutto nella storia, nella sua semplicità: se guardiamo ai personaggi di Don, Kathy, Cosmo e Lina potremo notare che sono estremamente archetipici. Don è venduto come il dongiovanni della situazione ma è, invece, il ragazzo dal cuore d’oro; Kathy è la brava ragazza, modesta, talentuosa, virginale (e questo l’ha detto Debbie Reynolds in persona [2]); Cosmo è l’amico affezionato, leale, una spalla perfetta per la controparte di successo; Lina è l’antagonista, incarna la “bionda” per eccellenza, quella che Hollywood ha costruito in decenni di immaginario. Dei personaggi così nettamente delineati ci permettono di prevedere, in un certo senso, ciò che accadrà.
E quando sappiamo cosa il futuro ha in serbo per noi, non possiamo che essere invasi da un senso di tranquillità, di familiarità. Perché anche quando il conflitto arriva al suo apice, nulla ci fa temere per i nostri beniamini e la previdibilità diventa un punto a loro favore. Fra coreografie acrobatiche, sognanti e comiche, fra canzoni che ora fanno parte del repertorio occidentale, Cantando sotto la pioggia continua, dopo settant’anni, ad essere un balsamo per i nostri cuori.
[1] L. Hilton, Why Gene Kelly’s “Singin’ In The Rain” is still popular, in «isingmag», 17 gennaio 2017. https://www.isingmag.com/why-gene-kellys-singin-in-the-rain-is-still-popular/.
[2] Intervista, Debbie Reynolds Talks About Singin’ in the Rain, canale YouTube «Turner Classic Movies», 19 aprile 2020. https://www.youtube.com/watch?v=EEizqKN7dpA.