Sullo sfondo malinconico delle nuvolose campagne d’Irlanda, Michael (Christopher Abbott) conduce un’esistenza solitaria, interamente devota all’infermo padre Ray (Colm Meaney) e al loro allevamento di ovini. Il giovane pastore trascorre buona parte del suo tempo a portare gli animali al pascolo, su e giù per le pareti pendenti e rocciose dei monti che circondano l’area. Un giorno riceve la notizia che due allevatori, Gary (Paul Ready) e suo figlio Jack (Barry Keoghan), hanno trovato nei pressi della loro abitazione, situata più in alto, ma non molto distante rispetto a quella del protagonista, due montoni del gregge di Michael. Essendo gli animali in uno stato di sofferenza, Gary e Jack avrebbero deciso deliberatamente di ucciderli e seppellirli nell’apposita fossa della loro casa. Michael, dubbioso, riconoscerà presto i suoi due stessi montoni, messi in vendita, tra le pecore di Gary. Da lì diverrà sempre più intensa la lotta del protagonista per difendere ciò a cui più tiene al mondo dalle violenze di un nemico identificato ma che, dinnanzi ai suoi occhi, mai si paleserà direttamente.
Bring Them Down è il lungometraggio d’esordio del regista Christopher Andrews, in concorso nella categoria Progressive Cinema della Diciannovesima Festa del Cinema di Roma. Il film è un thriller carico di violenza esplicita, forte tra i personaggi e, tristemente, inaudita verso gli innocenti animali. La visione pone una sfida anche agli stomaci più duri. Chi, nonostante tutto, continua a sostenerla si domanda se alla fine essa rivelerà una funzione moralizzante sugli angosciati individui che popolano l’arido universo di Andrews, oppure se, per lo meno, il suo esaurirsi condurrà, verso il finale, ad un’alterazione del campo di forze, allo smantellamento del precario equilibrio di partenza per l’instaurarsi un sistema rinnovato, anche se altrettanto instabile.
Purtroppo, Bring Them Down non riuscirà a soddisfare (o forse non si è mai proposto di farlo) le aspettative dello spettatore, che si ritroverà interdetto ed attonito di fronte allo scorrere dei titoli di coda. Michael, a fine film, continuerà a sentirsi incompreso, solo al mondo. Le sue uniche preoccupazioni saranno ancora la cagionevole salute del padre e il gregge, che, questa volta però, decimato da Jack e suo cugino Lee (Aaron Heffernan), sarà da rimettere – si badi, letteralmente – in piedi. Per quanto riguarda Caroline (Nora-Jane Noone) poi, amore giovanile di Michael, la sua decisione di trasferirsi nella città di Cork per lavoro e di separarsi dal marito Gary sarà già stata posta come premessa ad inizio film; la successiva, improvvisa incursione del protagonista nella sua vita familiare, pertanto, non vi avrà giocato alcun ruolo. Qual è, dunque, se è stato effettivamente pensato, il viaggio interiore che Andrews e il co-sceneggiatore Jonathan Hourigan avrebbero voluto far compiere ai loro personaggi e, conseguentemente, al pubblico?
Pur nella sua incertezza narrativa, l’opera di Andrews si presenta come un buon esempio di cinema. L’Irlanda rurale viene ripresa con maestria, in tutta la sua grigia bellezza, dal direttore della fotografia Nick Cooke, mentre la colonna sonora di Hannah Peel enfatizza l’attrattiva tensione che – di questo bisogna dar merito – Andrews e Hourigan sono riusciti a costruire. Altra nota di merito, esaminando il divisivo oggetto che è Bring Them Down, va rivolta alla performance di Abbott, per la quale i connotati dell’interprete si dissolvono in quelli del suo personaggio, di cui vediamo dispiegarsi vive sullo schermo la frustrazione e l’alienazione che lo tengono ostaggio.
Andrews, che con la sua prima prova al lungometraggio è riuscito, senza dubbio, a dimostrare la padronanza della macchina cinematografica, dovrebbe ora meglio definire la direzione della propria autorialità. Bring Them Down ne rimane solo un assaggio.